Sono passati mesi dal mio ultimo monitoraggio di cittadinanza del processo di Locri contro Lucano e Riace. In effetti, dall’inizio dell’anno il processo aveva rallentato i suoi ritmi per motivi interni al tribunale, che ne aveva diradato le udienze per dare la precedenza ad altri processi in corso con imputati sotto misure cautelari. A queste ragioni interne, nel mese di marzo si sono aggiunte le vicende legate all’epidemia scoppiata nel paese e al DPCM dell’8 marzo che ha imposto limiti importanti alla celebrazione dei processi, per cui anche udienze previste sono saltate. Adesso finalmente le udienze sono riprese il 30 giugno, ancorché a porte chiuse.
Tutto questo purtroppo fa temere che il processo si prolungherà ancora molto, visto che dopo 17 udienze non è ancora terminata l’esposizione da parte dell’accusa dell’informativa della Guardia di Finanza. Ci vorrà ancora molto tempo prima di entrare nel vivo del dibattimento, con le difese finalmente in gioco. Di certo, un processo penale che si prolunga non è indolore, ha pesanti conseguenze sulla situazione personale delle persone coinvolte e della comunità di Riace tutta: rende più difficile la ripresa della vita economico-sociale del paese, aggravando una situazione già pesante legata alla chiusura dei progetti pubblici, ai mancati rimborsi, ancora nel 2020, dei fondi Sprar e Cas dovuti per i servizi realizzati nel 2017 e 2018, al caos di un’amministrazione comunale ancora condotta da un Sindaco ormai dichiarato ineleggibile da mesi e da una giunta minata da dimissioni e scandali.
Ma un processo che dura a lungo finisce, inevitabilmente, per essere attraversato da eventi, anche esterni, che possono comunque interferire con il suo autonomo procedere. Allora in questa fase un po’ sfilacciata del dibattimento è forse meno importante seguire per filo e per segno la presentazione degli argomenti dell’accusa. Farò comunque un breve cenno ai temi che sono stati trattati nelle ultime udienze, per tenerne traccia; ma non mi pare siano usciti nuovi spunti importanti per capire le poste in gioco nel processo, nulla che abbia arricchito il quadro delle ipotesi avanzate dall’accusa per come lo abbiamo finora visto attraverso le parole del colonnello Sportelli.
Anzi, cresce l’impressione che, pur su capitoli diversi, gli argomenti si assomiglino sempre di più; ormai risuonano nell’aula come qualcosa di déjà entendu. Forse allora è più importante tenere il filo di tutto quello che succede, dentro e fuori dal processo, intorno al caso di Riace e del suo ex-sindaco Lucano, trascinati come ormai sappiamo bene in un processo politico che rischia di segnare in modo duraturo la storia politica di questa prima parte del nostro XXI secolo. Tanto più che i media, mentre si disinteressano quasi del tutto del processo, le cui notizie restano relegate nella cronaca locale, tendono invece ad amplificare l’eco di vicende che offrono spunti più narrativi, che riguardino l’ex-sindaco o il paese, salvo poi lasciarle sparire senza che se ne siano analizzate le possibili implicazioni dal punto di vista del processo.
Per le udienze, è presto detto. L’udienza del 14 gennaio è stata un’udienza breve; assente Sportelli, è il maresciallo della Guardia di Finanza di Locri, Cosimo Damiano Lenti, che ha riferito sul tema delle carte d’identità. Qui l’ipotesi di reato è abuso d’ufficio: dal 2012 al 2017 Lucano, nella sua duplice veste di sindaco e di responsabile dell’ufficio anagrafe del Comune di Riace, avrebbe disposto di non far pagare i diritti previsti per il rilascio di carte d’identità e certificati e addirittura in certi periodi avrebbe acquistato le carte d’identità a spese sue personali, invece che del Comune di Riace. Viene accusato di atti omissivi e danno erariale per un ammontare complessivo di euro 11.817,50 in sei anni. La motivazione di Lucano, ribadita dalle intercettazioni lette come sempre dall’accusa in versione non ufficiale, è che non aveva voluto esigere quelle somme perché erano un aggravio per i migranti in difficoltà economiche e aveva deciso di non richiederle nemmeno ai cittadini locali per non creare disparità di trattamento. Inutile dire che la motivazione non convince il PM, perché i migranti avrebbero potuto pagare con il pocket money che ricevevano. Probabilmente non gli è chiarissimo cosa davvero si può fare con 2.5 euro al giorno…
L’udienza del 25 febbraio si è concentrata sul reato di peculato, che sarebbe rintracciabile nell’uso dei fondi risparmiati. L’accusa sciorina numeri su numeri, dai conti correnti personali o delle associazioni; rileva discrepanza fra contanti ritirati e giustificati, esprime dubbi sulle basi economiche per spese correnti e viaggi, insinua insomma che parte dei fondi risparmiati siano stati usati per fini personali, ma non ha prove. In particolare, su Lucano deve riconoscere che l’esame dei conti correnti non ha dato nessun esito; l’ex-sindaco viveva effettivamente della sua indennità mensile. In questo vortice di cifre e di corrispondenze forzate, si precisa però meglio un tema già emerso: a Riace è saltata la distinzione fra CAS e Sprar. La Procura denuncia di aver riscontrato un’indebita commistione fra le case usate e i servizi prestati nell’uno e nell’altro progetto; di conseguenza, anche spese e fatture sono confuse.
Qui però sembra descrivere un mondo lontano mille miglia dalla realtà di Riace; è davvero difficile immaginare che si potesse realizzare una separazione netta di spazi, servizi e personale fra i due progetti in quell’antico borgo, che per oltre vent’anni ha accolto numeri importanti di migranti grazie alla disponibilità di case lasciate vuote dagli emigrati, e proprio per questo ha ricevuto in particolare intere famiglie, donne sole con bambini, minori; o che in quella piccola comunità potessero convivere alcuni solo “accolti” nel CAS ed altri invece anche “integrati” nello Sprar, solo perché la logica dei due sistemi è diversa. In realtà, gli appartamenti erano assegnati in funzione del gruppo familiare, la scuola era unica, unico l’ambulatorio medico, comuni i mediatori ed altri operatori. C’erano una spontaneità ed un equilibrio della vita comunitaria da rispettare. Possibile che per tanti anni i progetti fossero accettati e rifinanziati, che la Prefettura continuasse ad inviare nuovi ospiti a Riace e nessuno avesse mai visitato il borgo? Davvero qualcuno credeva che a Riace ci fosse il grosso centro in cui erano chiusi i migranti inviati dalla Prefettura, e che l’accoglienza diffusa riguardasse solo il ristretto numero degli ospiti Sprar? Riesce difficile crederlo.
L’udienza del 30 giugno è stata quasi interamente dedicata al frantoio, che negli ultimi anni è stato dotato di macchinari moderni per migliorarne le funzionalità. L’accusa ha cercato di dimostrare che Lucano e Città Futura erano consapevoli che non si poteva investire quanto risparmiato sui fondi dei migranti nell’acquisto dei macchinari per un frantoio, cosa che in realtà lo stesso Lucano aveva tranquillamente dichiarato in aula; dunque lo sforzo risulta un po’ specioso. Ha poi esibito lungamente fatture comprovanti acquisto di materiali ed esecuzione di lavori. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole: utilizzare “economie” fatte sui fondi pubblici per i migranti, invece di restituirle, è un reato di per sé, indipendentemente da cosa ci si fa.
In realtà l’accusa ha provato ad accreditare l’idea che almeno inizialmente Città Futura pensasse a “farsi un frantoio”, e solo dopo aver scoperto di essere sotto indagine avesse sposato l‘idea di un “frantoio di comunità”. Ma anche questa supposizione resta indimostrata: intanto perché il frantoio, rimesso in piedi con i profughi curdi a fine anni ’90, aveva già funzionato in regime di comunità; per di più, Città Futura non possiede il locale, ma lo affitta; e poi il nuovo frantoio non ha potuto entrare in attività fino all’autunno 2019, a processo ormai in corso da tempo e solo grazie ad un ulteriore contributo economico arrivato dalle raccolte fondi solidali. Ora che è in funzione, si è visto bene che nessuno ci ha fatto soldi, che tutto è andato alla comunità, ma voler provare che ci sia stato un ritorno economico di Città Futura prima ancora che rientrasse in funzione è compito improbo.
Citati velocemente i temi toccati nelle tre udienze, proviamo a ragionare sulle cose che sono successe invece fuori dal processo, nei lunghi mesi in cui questo taceva, perché, come dicevo, rischiano di non essere indifferenti dal punto di vista del processo. Per restare vigili su tutta questa vicenda, che è poi l’obiettivo precipuo di questo monitoraggio di cittadinanza, può essere utile tenere insieme tutti questi fili.
Intanto, a fine marzo, Domenico Lucano riceve la citazione in giudizio dalla Procura di Locri, davanti al giudice monocratico, per un secondo processo per falso ideologico, prima udienza il 2 luglio 2020. Lucano sarebbe reo di aver rilasciato carte d’identità a due soggetti sprovvisti di permesso di soggiorno: una giovane donna eritrea richiedente asilo e il suo neonato di 4 mesi, entrambi inviati a Riace dalla Prefettura di Reggio Calabria nell’aprile 2016, poco dopo la nascita del piccolo. Mamma e neonato erano stati presi in carico da una delle associazioni che a Riace gestivano le strutture per i migranti; quando si scopre che il piccolo soffre di insufficienze enzimatiche ed ha bisogno di cure specialistiche, siccome senza carta d’identità non può accedervi, l’associazione richiede al Comune il rilascio di queste carte d’identità.
Avevo già segnalato varie anomalie in questo secondo processo contro Lucano. Intanto, la fragilità dell’accusa, visto che dal 2012 era prassi accettare la richiesta d’asilo in sostituzione del permesso di soggiorno ai fini della residenza e quindi della carta d’identità. E poi il fatto che sia il reato di falso ideologico sia il tema delle carte d’identità sono già presenti nel primo processo. Come mai la Procura sentiva il bisogno di infierire aprendo un nuovo processo? A caldo, avevo avanzato l’ipotesi che volesse a tutti i costi prolungare l’agonia giudiziaria di Lucano, o comunque quegli effetti tutt’altro che secondari che un processo penale ha, come osservavo prima, sulla vita delle persone e delle comunità. Che fosse insomma una sorta di accanimento, per prolungare nel tempo gli effetti della violenza che si è abbattuta su Riace. Forse poteva trattarsi anche di un tentativo di affidare il giudizio sull’operato di Lucano ad altri giudici, specie se monocratici come nel caso di questo secondo processo. Quali che fossero davvero gli intenti della procura, il colpo però non è riuscito: non ci sarà un secondo processo a Lucano. Nell’udienza del 30 giugno, il collegio di difesa ha avanzato richiesta di unificazione del secondo processo con il primo e il presidente del collegio giudicante si è detto favorevole; cosicché il secondo processo a Lucano si è aperto e chiuso il 2 luglio, e sta per confluire nel processo principale.
Ma c’è stato anche un altro evento importante, in questi mesi in cui il processo ha taciuto: la sentenza del Consiglio di Stato, che il 28 maggio ha respinto il ricorso del Viminale e confermato la decisione del TAR di Reggio Calabria che aveva dichiarato illegittima la chiusura dello Sprar dando ragione al Comune di Riace. Il ricorso è stato respinto per alcuni motivi importanti. Il primo, che il progetto era stato rifinanziato per i tre anni successivi solo un mese prima; come è possibile chiudere improvvisamente un progetto appena approvato? Il secondo deriva direttamente dalle Linee guida dello Spar: se vengono riscontrate anomalie, il servizio centrale deve segnalarle in modo specifico, suggerire le misure correttive da adottare e dare dei tempi precisi entro i quali mettersi in regola, prima di applicare eventualmente punti di penalità. Insomma, non solo lo Sprar di Riace non doveva essere chiuso, ma i funzionari del servizio Sprar non si sono comportati secondo le regole del servizio stesso.
Allora una cosa la possiamo rilevare subito: è probabile che Lucano abbia contravvenuto ad alcune regole dello Sprar, nell’intento di costruire quel modello di sviluppo che nella sua visione poteva garantire ai migranti l’integrazione e ai locali il riscatto da un destino segnato da abbandono e sottosviluppo. Di certo però, perché lo asserisce la sentenza del Consiglio di Stato, i funzionari dello Sprar sono venuti meno al rispetto di quelle regole e per un fine meno “nobile”: chiudere un servizio, distruggere un’esperienza, mortificare una comunità che aveva provato a rialzare la testa.
Certo, la sentenza del Consiglio di Stato non tocca direttamente il processo penale, ma salta agli occhi che punta il dito al cuore delle sue contraddizioni, nel ribadire che le inosservanze delle Linee guida dello Sprar vanno trattate all’interno della logica amministrativa, incluse le penalizzazioni che quest’ultima prevede. Tolte queste, cosa rimane del processo penale? Il dolo, l’appropriazione, il vantaggio economico, personale: tutto quello che la Procura non ha potuto provare nell’azione di Lucano, che ha successivamente tentato di trasformare in un suo presunto vantaggio “politico-elettorale” e che ha ormai espunto quasi del tutto dalla sua narrazione.
Ormai, come abbiamo visto a proposito del frantoio, la Procura parla delle “economie” realizzate da Lucano quasi fossero un reato in sé, senza bisogno di dimostrare altro. Certo, i media ci hanno abituati che nel cosiddetto “business dell’accoglienza” non si fanno molte economie, anzi i fondi vengono usati fino all’ultimo centesimo. Qui invece la difficoltà per l’accusa è che le economie sono state usate in piena luce, sotto gli occhi di tutti, e a vantaggio di tutti, sono state apertamente rivendicate come innovazioni importanti del modello Riace e tollerate per anni dal sistema dei finanziamenti pubblici. Se tutt’a un tratto questa tolleranza si interrompe, anzi si trasforma in criminalizzazione, questo può giustificarsi solo in nome di un accertato abuso personale, di una qualche grave rottura di quell’equilibrio fra ospitalità dei rifugiati ed economia locale che si è voluto costruire a Riace. In fondo, come chiarisce bene lo stesso Consiglio di Stato, “lo Sprar si basa su un sistema di cogestione fra amministrazione statale e enti locali connotato dal principio della leale collaborazione; per questo prima di adottare qualunque misura demolitoria l’amministrazione statale deve attivarsi per far correggere i comportamenti non conformi, operando in modo da riportare a regime eventuali anomalie”.
Ma se non si riesce a provare l’insorgere di un abuso personale, o di un dolo che spezzi la “leale collaborazione”, chiudere il servizio diventa un atto ostile verso il Comune. Da dove nasce quest’ostilità? Anche senza toccare il processo, insomma, la sentenza del Consiglio di Stato solleva domande sulla sua ossatura: il processo poggia su irregolarità amministrative trattate come gravi reati penali, mentre è il principio della leale collaborazione che avrebbe dovuto orientare la correzione di quelle irregolarità. C’è un vuoto fra i due piani, che il processo vorrebbe saltare. Ma questa volontà non è spiegabile se non in riferimento a quello scarto improvviso nelle politiche migratorie che è avvenuto in Italia a partire dalla fine del 2017: è qui che la leale collaborazione con il Comune di Riace diventa ostilità contro l’idea di accoglienza praticata da Lucano e la comunità multiculturale che va costruendo, in cui gli stranieri non sono ospiti ma parte integrante della comunità.
Ormai il re è nudo. Siamo di fronte ad un netto scontro fra due verità, come succede in un processo politico: da una parte, la tesi dell’accusa che tratta come distrazione di fondi, occultamento e falso tutte le economie realizzate sui fondi destinati all’accoglienza dei migranti e investite in altre attività, sebbene si tratti di attività tese a realizzare l’integrazione; dall’altra la “verità di Lucano”, esposta nelle dichiarazioni spontanee del 12 novembre, che denuncia l’insufficienza dell’accoglienza e la necessità di creare le condizioni per l’integrazione dei migranti. Che all’integrazione siano destinate tutte le attività messe in piedi con quelle economie lo dimostra in modo eclatante proprio il funzionamento del frantoio di comunità nell’autunno del 2019: venti contratti di lavoro stagionale seri, con la retribuzione e le tutele previste dal contratto sindacale, come ormai nel settore della raccolta delle olive non succede quasi più nemmeno nella civilissima Toscana.
In un certo senso, possiamo dire che il frantoio di comunità è ormai il simbolo del modello Riace e del tentativo di criminalizzarlo. Per Riace racchiude in sé tutti i progetti di sviluppo che avevano già dato vita negli anni alle botteghe artigiane, al lavoro di restauro, di recupero dal degrado urbano, di risistemazione del paese e del paesaggio, altrettante attività che avevano messo insieme migranti e autoctoni in nome di comuni obiettivi di vita e di sviluppo. Per la Procura è l’esempio macroscopico di indebite economie e colpevole distrazione di fondi. Intanto, con il lavoro di migranti e autoctoni e con l’ottimo olio extra-vergine d’oliva 2019 ormai interamente venduto, il frantoio di comunità è diventato anche il simbolo della resistenza di Riace; per questo adesso è stato impreziosito con tre splendidi murales che raffigurano la storia antica del lavoro con gli ulivi, perché lo sviluppo della comunità non può che collegarsi alle sue origini.