Da Carla Camponeschi
Dopo aver passato per lavoro tre anni a San Paolo, una megalopoli brasiliana con tutte le problematiche immaginabili ma allo stesso tempo sorprendente per la produttività dei suoi cittadini e per il suo lato alternativo, vengo informata dalla mia compagnia che il mio periodo a ritmo di samba in Brasile è terminato. Sarò trasferita in Canada, a Toronto.
Bene, sono proprio pronta per trasferirmi nel “primo mondo”!
Dopo anni passati a preoccuparmi della sicurezza in ogni momento del giorno, iniziando dal tragitto per andare in ufficio, in aeroporto, con tanto di semafori rossi da non rispettare per evitare spiacevoli incontri, fino al ritorno nella mia abitazione la sera con tanto di doppio cancello sorvegliato per entrare a casa.
Basta con tutta la burocrazia brasiliana, dopo tre anni i miei documenti non sono ancora pronti.
In Canada, con una lettera di invito della mia compagnia ed un contratto di lavoro per tre anni, il visto mi verrà rilasciato direttamente in aeroporto. Mi sembra incredibile!
Arrivo a Toronto, Pearson Airport, dopo dieci ore di volo.
Ho lasciato il Brasile con una temperatura di 30 gradi. Toronto meno 15, spero di sopravvivere.
Mi avvicino al banco dell’immigrazione, dopo aver mostrato tutti i miei documenti vengo informata che per ottenere il visto di tre anni dovrò fare una visita medica perché ho vissuto per tre anni in Brasile.
Al momento il visto mi viene rilasciato solo per sei mesi.
Non prevedo nessun problema, sono in Canada tutto sarà semplice e lineare.
Riesco a prendere l’appuntamento per la visita medica, trovo l’ufficio e con un atteggiamento confidente da trasferita con tanto di contratto di lavoro, varco la soglia dell’edificio dove vengono effettuate le visite.
In un istante cambia tutto, gli impiegati sono estremamente sgarbati, infastiditi.
La gente in attesa delle visite viene principalmente dal centro e dal Sud America, in cerca di costruirsi una vita migliore in Canada, che si propone sempre come un paese estremamente corretto e la terra delle opportunità.
Ma allora, cosa sta succedendo in questo ufficio? Perché l’atmosfera è così negativa, perché la gente viene trattata in una maniera estremamente sgarbata, quasi aggressiva?
Finalmente arriva il mio turno, la visita medica è molto accurata, addirittura viene misurata la lunghezza della mia cicatrice dell’appendicite con un righello, raggi X ai polmoni, analisi del sangue, test HIV.
Insomma un inferno, le infermiere continuano a chiedermi come ho fatto ad ottenere un visto di sei mesi, ma non ascoltano la mia risposta.
Non sono in Canada per cercare un lavoro perché ho già in contratto, devo solo fare la visita medica perché ho abitato in Brasile.
Per loro io sono come tutte le altre persone in attesa in questo edificio, il loro atteggiamento è decisamente razzista, mi parlano come se non capissi l’inglese, non hanno tempo per nessuno.
Ora di pagare il conto dopo aver avuto a che fare per due ore con lo staff che tratta la povera gente in cerca di ottenere un visto con autosufficienza e senza un filo di empatia.
Non ho i soldi esatti, sempre in una maniera scortese mi viene detto che non hanno il resto, devo arrangiarmi e trovarli anche se nella zona è molto difficile trovare un posto dove cambiarli.
Se non fossi arrivata dal Brasile, non sarei mai stata esposta a questo tipo di esperienza e non avrei mai immaginato che anche il Canada fosse un paese come tutti gli altri, dove il razzismo è endemico malgrado la patina di perbenismo che i canadesi si ostinano a sbandierare.