Ci troviamo di fronte, in buona sostanza, a quella che potremmo definire una «stabilizzazione asimmetrica». In Serbia, il successo elettorale di domenica, 21 Giugno, del blocco di potere che fa riferimento all’attuale dirigenza politica, l’SNS e i suoi alleati, con a capo il presidente della repubblica, Aleksandar Vučić, ha avuto un carattere quasi plebiscitario, ed è stato indubbiamente un successo anche personale per lo stesso Vučić. Peraltro, la dimensione del risultato, sia in termini di consenso (62%), sia in termini di proiezione in seggi in Parlamento (189 su 250), pur in attesa della comunicazione dei dati definitivi, non solo esprime un consenso effettivo e forte, che sarebbe ingenuo non riconoscere, ma anche attesta la misura di quella «vasta fiducia» di cui Vučić stesso parlava nel suo comizio post-elettorale. In definitiva, secondo uno schema logico assai caro alle élite al potere, se si tratta di intraprendere scelte storiche, sembra proprio questo il momento per farlo.
In Kosovo, la ricalibratura del baricentro politico, dopo la fine dell’esperienza del governo Kurti, che aveva portato il primo partito, Vetëvendosje, per la prima volta a misurarsi con il governo della regione, ha portato alla guida del nuovo governo Avdullah Hoti, che, insediatosi lo scorso 3 Giugno, ha consentito alla maggioranza parlamentare di consolidarsi intorno all’asse di due partiti storici della scena kosovara, l’LDK e l’AAK, con il leader del terzo partito, il PDK, a tenere la regia della scena, dallo scranno più alto del quadro istituzionale, essendo Hashim Thaçi, già capo della guerriglia dei separatisti dell’UCK, oggi presidente dell’auto-proclamata repubblica. Lo stesso Thaçi che, da capo del governo, aveva firmato, il 19 Aprile del 2013, con l’attuale ministro degli esteri serbo, Ivica Dačić, il primo accordo di mediazione di ampia portata, il «Brussels Agreement» tra la parte serba e quella kosovara.Una stabilizzazione comunque incerta,quella kosovara (segnata dalle contraddizioni tra i partner della maggioranza e dalle proteste di Vetëvendosje), ma disponibile a rilanciare il “dialogo”.
Numeri e personalità spingono verso la ripresa del tavolo negoziale, e la partita diplomatica, proprio in queste ore, all’indomani di queste rilevantissime evoluzioni politiche ed istituzionali, ha ripreso un inedito slancio, ha registrato un’indubbia accelerazione. Ieri si è conclusa la tornata di confronto, la spola tra le due “capitali”, Prishtina prima, Belgrado poi, del mediatore europeo, Miroslav Lajčak, che ha dovuto ribadire, ad esito del colloquio con Vučić, che la mediazione tra le parti continuerà a svolgersi sotto la mediazione della Unione Europea, poi che entrambe le parti hanno confermato disponibilità e volontà a riprendere il filo, sin qui interrotto, del dialogo, e infine che il negoziato potrebbe riprendere nel mese di Luglio. Nel giro di 24 ore, tuttavia, Vucic è già a Mosca, dove, come spesso accade, la circostanza di un evento, peraltro di grande spessore memoriale, la grande parata sulla Piazza Rossa per la celebrazione del 75° anniversario della vittoria delle forze democratiche sul nazi-fascismo, costituirà, anche, l’occasione per un vertice con il presidente russo Vladimir Putin, che in più circostanze è intervenuto ad esprimere sostegno alle istanze negoziali di Belgrado.
Lungo l’asse Mosca-Washington, come in un rinnovato “big game” diplomatico, non è detto che non vi sarà la possibilità di una tappa a Bruxelles, e non è detto che in questa circostanza non possa esservi un incrocio con il premier kosovaro Hoti; ma l’asse diplomatico si estende adesso fino a Washington, non più convitato di pietra della partita diplomatica, ma, da almeno un anno a questa parte, vero e proprio protagonista del “dialogo” Belgrado-Prishtina, al punto da oscurare, non in un’occasione, la mediazione “ufficiale” dell’Unione Europea. Anche dalle parti di Washington è stato avanzato l’auspicio (o la previsione?) che il dialogo possa decollare nel corso del mese di Luglio; ma, diversamente da quanto paia mostrare l’Unione Europea in questa fase, sembra intenzione degli Stati Uniti articolare la cadenza del dialogo alla stregua di un vero e proprio “piano”. In una recente intervista, riportata tra i primi in Serbia dal quotidiano “Blic”, il mediatore statunitense Richard Grenell, ha infatti posto il focus dell’attenzione sulle questioni economiche a base del confronto tra le parti.
In un passaggio altamente significativo di questa intervista si fa riferimento a «questioni economiche più che politiche»: con questo passaggio, Grenell ha ricordato l’accordo raggiunto sul traffico aereo (la linea aerea tra Belgrado e Prishtina), primo del genere dalla fine della guerra, l’accordo in via di definizione sul traffico ferroviario, che aprirebbe nuove rotte al commercio, la ridefinizione dell’accordo sul traffico automobilistico, e ha alluso ancora al dovere di «concentrarci sulle questioni economiche», con la proposta di una mini-Schengen regionale, una zona di interazione economica e di scambio commerciale tra la Serbia e il Kosovo.
È l’approccio tipico di Trump, già drammaticamente messo in sperimentazione in Vicino Oriente (un fiume di denaro promesso alla Palestina in cambio dell’annessione israeliana di ampie parti della Cisgiordania e della Valle del Giordano, con l’estensione della sovranità israeliana in cambio di un riconoscimento formale di un mini Stato palestinese) e che ora rischia di essere sperimentato anche nei Balcani (magari anche nella forma dello scambio di territori su base etnica, con il Nord del Kosovo a maggioranza serbo alla Serbia e la Valle di Preševo, a maggioranza albanese, al Kosovo), in cambio di un reciproco riconoscimento e di un accordo bi-laterale con una rilevante componente economica a sostegno. Ma nei Balcani come nel Vicino Oriente (ed in Europa come nel resto del mondo) quasi mai le ragioni economiche e commerciali possono essere slegate da quelle politiche e sociali, per non dire, soprattutto in questi contesti altamente delicati, della storia e della memoria. E così, sullo sfondo, rischiano di restare proprio le questioni più grandi: quelle della pace, della giustizia, del rispetto del diritto internazionale, e dei diritti umani, su base eguale, per tutti e per tutte.