Chiediamo al Governo di bloccare qualsiasi ipotesi di nuove forniture militari all’Egitto di al-Sisi.
Chiediamo a Deputati e Senatori di pretendere un dibattito aperto e chiaro in Parlamento su questa ipotesi di “contratto armato” (che tocca punti nodali della politica estera e di difesa dell’Italia).
Lo faremo diffondendo messaggi, prese di posizione, iniziative di sostegno di molte figure note delle nostre organizzazioni e di tutti coloro che vorranno esprimere il proprio dissenso verso questa ipotesi grave, negativa e contraria alle norme nazionali ed internazionali che regolano l’export di armamenti.
Per sostenere la nostra richiesta puoi mobilitarti sui social network in questi modi:
- gira un video di 30 secondi esplicitando il dissenso alla vendita di armi all’Egitto e il sostegno alle richieste di Amnesty International, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo. Termina il tuo video dicendo “#StopArmiEgitto” e usa questo hashtag coinvolgere le nostre organizzazioni e fare pressione su esponenti governativi e parlamentari
- se non vuoi o puoi realizzare un video puoi scattare una foto con le grafiche della nostra campagna, ancora una volta usando l’hashtag #StopArmiEgitto per collegarti all’azione congiunta
- diffondi il materiale informativo sulla situazione dei diritti umani e sul commercio di armi italiane in Egitto creato per questa mobilitazione e che trovi sui siti e sugli account di Amnesty International, Rete della Pace, Rete Italiana per il Disarmo.
Perché mobilitarsi per lo stop armi all’Egitto
Di cosa parliamo?
Diverse e autorevoli fonti di stampa internazionale e nazionale hanno riportato la notizia di trattative tra Roma e Il Cairo riguardo ad un “maxi-contratto”, definito “la commessa del secolo. Da fonti trapelate a mezzo stampa, si tratta di due fregate multiruolo Fremm costruite per la marina miliare italiana ed ora destinate all’Egitto (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi, del valore di 1,2 miliardi di euro), di altre quattro fregate, 20 pattugliatori (che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani), di 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Sempre secondo quanto riportato dalla stampa italiana ed estera, l’esportazione delle due fregate sarebbe già stata autorizzata dal governo.
Perché la commessa militare deve essere discussa in Parlamento?
Per almeno due motivi. Questa commessa rappresenterebbe il maggiore contratto mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra e renderebbe l’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani. Un impegno di questo tipo vincola i due governi a rapporti durati negli anni che andranno a condizionare anche futuri governi italiani, diversi dall’attuale.
Questa è una decisione che influisce direttamente sulla politica estera e di difesa dell’Italia ed è per questo che non può essere considerata allo stesso modo di altre licenze di esportazione di armamenti, come “ordinaria amministrazione”. La scelta di un impegno di questo tipo con un governo estero deve essere discussa in Parlamento e non può essere lasciata a mera competenza dell’Autorità nazionale UAMA – Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento.
Va, inoltre, considerato il ruolo che l’Egitto sta esercitando nel conflitto in Libia. L’Egitto è il principale sostenitore del generale Haftar, che guida l’autoproclamato “Consiglio nazionale di transizione libico” che da anni è in conflitto col governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, che l’Italia sostiene. Esportare armamenti all’Egitto significa, di fatto, fornire sistemi militari ad un paese che non solo non condivide, ma anzi avversa apertamente l’azione dell’Italia e della comunità internazionale per un processo di pacificazione in Libia.
In base a quanto riportato dalla fonte esterna, l’Egitto viola probabilmente l’embargo sugli armamenti verso la Libia stabilito dalle Nazioni Unite, embargo che dovrebbe essere implementato e controllato dalla missione navale IRINI di cui l’Italia ha fortemente richiesto la guida.
Perché ci opponiamo alle esportazioni di armi e sistemi militari all’Egitto?
Per tre ragioni.
L’Egitto sostiene direttamente l’offensiva militare in Libia del generale Haftar fornendo basi di supporto e, probabilmente, materiali militari alle truppe di Haftar. L’intervento militare del sedicente “Consiglio nazionale di transizione libico” configura in Libia una situazione di conflitto armato difficile da smentire. A tal riguardo la legge n.185 del 1990, che regolamenta le esportazioni di armamenti, prevede espressamente il divieto ad esportare armamenti e sistemi militari “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere” (art.1, c.6a). La stessa legge prevede, inoltre, il divieto ad esportare armamenti e sistemi militari “verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione” (art. 1, c. 6b).
In Egitto, a seguito del colpo di Stato promosso dal generale Abdel Fattah al Sisi, le autorità hanno fatto ricorso a una serie di misure repressive contro i manifestanti e i dissidenti, tra cui sparizioni forzate, arresti di massa, torture e altri maltrattamenti, uso eccessivo della forza e gravi misure di limitazione della libertà di movimento. Nel corso degli ultimi mesi le forze di sicurezza hanno arrestato e detenuto arbitrariamente almeno 20 giornalisti per aver espresso pacificamente le loro opinioni. Le autorità hanno continuato a limitare gravemente la libertà di associazione delle organizzazioni per i diritti umani e dei partiti politici. A seguito delle proteste del 20 settembre 2019, la Procura suprema di sicurezza dello stato (SSSP) ha ordinato la detenzione di migliaia di persone in attesa di indagini in relazione alle accuse vagamente correlate al “terrorismo”. L’ampio ricorso a tribunali eccezionali ha portato a processi gravemente ingiusti e, in alcuni casi, a condanne a morte. La tortura è diffusa nei luoghi di detenzione formali e informali e le condizioni di detenzione sono disastrose. Dozzine di lavoratori e sindacalisti vengono arbitrariamente arrestati e processati per aver esercitato il loro diritto di sciopero e manifestazione.
La situazione è stata ripetutamente denunciata dalle associazioni per i diritti umani e da diverse risoluzioni del Parlamento europeo (cfr. Risoluzione 13 dicembre 2018 e Risoluzione 24 ottobre 2019). A tal riguardo, la legge n. 185 del 1990 prevede espressamente il divieto ad esportare armamenti e sistemi militari “verso i paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Unione europea o del Consiglio d’Europa” (art. 1, c. 6c).
Le autorità egiziane non solo non hanno mai contribuito a fare chiarezza sul barbaro omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto, ma hanno ripetutamente fornito ai magistrati italiani informazioni insufficienti o parziali.
L’Italia, inoltre, continua a chiedere il rilascio di Patrick Zaki, attivista, ricercatore egiziano di 27 anni e studente dell’Università di bologna, che si trova dal 7 febbraio 2020 in detenzione preventiva fino a data da destinarsi. Rischia fino a 25 anni di carcere per dieci post di un account Facebook che la sua difesa considera ‘falso’, ma che ha consentito alla magistratura egiziana di formulare pesanti accuse di “incitamento alla protesta” e “istigazione a crimini terroristici”.
In definitiva, questa nuova fornitura militare non solo è in chiara violazione delle norme vigenti, ma rappresenta un esplicito sostegno al regime repressivo instaurato dal generale Al Sisi all’indomani del colpo di Stato del luglio 2013.
Perché l’Italia può ancora bloccare le vendite di questi sistemi militari?
Sebbene, secondo quanto riportato dalla stampa (ANSA, 8 giugno 2020), l’esportazione delle due fregate Fremm – Spartaco Schergat e Emilio Bianchi – originariamente destinate alla marina miliare italiana, sembra sia stata recentemente autorizzata, è ancora da definire il più ampio ordinativo che comprenderebbe altre quattro fregate, 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M-346.
Anche se fossero già state autorizzate ed avessero preso avvio le trattative commerciali relative, il governo, ed in particolare il Ministero degli Esteri, può ancora decidere di non concedere l’autorizzazione alla fornitura e all’esportazione di questi sistemi militari all’Egitto. Tale diniego non contrasta con l’autorizzazione preliminare ed è ancora possibile negarla in quanto, come spiegato in una recente audizione dal direttore dell’Autorità nazionale UAMA, si tratta di due atti diversi tanto che solo “il 2,5 per cento del valore autorizzato come trattativa poi si traduce in reali contratti” nel campo dell’export militare.
Ma se l’Italia non vende all’Egitto questi sistemi militari potranno venderli altri paesi?
È possibile, ma molto difficile perché la normativa europea contempla delle norme precise per prevenire la “concorrenza sleale”, anche in materia di esportazioni di armamenti e di sistemi militari. La “Posizione Comune 2008/944/PESC” del Consiglio che definisce “norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari” prevede esplicitamente che “gli Stati membri diffondono i dati delle domande di licenza di esportazione che sono state rifiutate secondo i criteri della presente Posizione comune, corredandoli di una spiegazione delle ragioni del rifiuto della licenza. Prima di rilasciare una licenza che sia stata rifiutata da un altro o da altri Stati membri per un’operazione sostanzialmente identica nei tre anni precedenti, uno Stato membro consulta lo Stato o gli Stati membri che hanno rifiutato il rilascio. Qualora, dopo aver effettuato le consultazioni, lo Stato membro decida comunque di rilasciare la licenza, esso ne informa lo Stato o gli Stati membri che l’avevano negata, fornendo una motivazione dettagliata” (art. 4.1). Questo ostacola e pregiudica ogni possibile esportazione di sistemi militari simili a quelli rifiutati da parte di altri paesi. Pertanto l’Italia, non autorizzando l’esportazione prevista all’Egitto, ha l’effettiva possibilità di bloccarla anche per tutti i Paesi dell’Unione europea.
Ma non si tratta di un contratto rilevante per la nostra industria militare, per mantenere e creare nuovi posti di lavoro, ancora più necessario adesso vista la crisi economica a seguito della pandemia da Covid-19?
Come proprio la pandemia da Covid-19 ha evidenziato, l’Italia possiede un’industria militare in grado di produrre tutti i sistemi militari necessari per fare una guerra, ma è gravemente insufficiente nella produzione di materiali militari di basso costo (mascherine, camici, kit medici), in particolare di apparecchiature medico-sanitarie. Questo è il risultato delle scelte, portate avanti da questo governo e dai precedenti, di dare ampio sostegno diretto a questo settore produttivo, grazie a spese militari sempre più alte, e indiretto, attraverso la fornitura di nuovi contratti di esportazione.
Anche nel caso delle due fregate destinate all’Egitto, una gran parte dei costi graveranno sui contribuenti italiani perché la nostra marina militare pretenderà la sostituzione delle due unità navali che le verranno sottratte – a costi probabilmente maggiori oltre che, ovviamente, con tempi più lunghi – senza contare l’esposizione finanziaria di istituti di credito italiani coperta con garanzie pubbliche (via SACE). Pensare di continuare in questo modo, incentivando la produzione militare che per due terzi è diretta al di fuori dei paesi alleati e, soprattutto, nelle zone di maggior tensione e conflitto nel mondo, significa voler continuare a sostenere un settore che non solo mette a repentaglio la sicurezza e la pace internazionale, ma distoglie risorse e fondi ad ambiti, come quello sanitario, in cui l’Italia è carente e dipendente dall’estero.
Molti studi di natura economica dimostrano come un investimento nel settore militare ha ritorni finanziari e di posti di lavoro molto più bassi di quanto si potrebbe ottenere con investimenti in altri settori produttivi, come ad esempio le energie rinnovabili, l’istruzione, la salvaguardia dell’ambiente, il welfare che, oltretutto, non hanno caratteristiche controproducenti come le armi, sia in termini politici che di sostegno a conflitti armati distruttivi e criminali. Per questo le nostre associazioni chiedono una profonda revisione dell’industria militare nella direzione della riconversione a fini civili di quella sua parte ormai obsoleta e di una razionalizzazione programmatica dei settori industriali militari nel contesto di un rinnovato e diverso Piano di difesa europeo. Si tratta di un indirizzo già presente nella normativa vigente, purtroppo ampiamente inattuata, che prevede che lo Stato predisponga «misure idonee ad assecondare la graduale differenziazione produttiva e la conversione a fini civili delle industrie nel settore della difesa» (L.185/1990, art.1, c.3).