Dopo le risposte di Riccardo Noury, Laura Quagliolo, Giovanna Procacci, Giovanna Pagani, Guido Viale, Andreas Formiconi, Jorida Dervishi, Pia Figueroa, Renato Sarti , Yasha Maccanico, Fulvio De Vita e Carlo Olivieri sentiamo ora Antonio Panella.
Ora che stiamo uscendo dall’emergenza Covid19 molti dicono: “Non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”. Questa dunque può essere una grande occasione di cambiamento.
Qual è secondo te la necessità di cambiamento più urgente in questo momento e cosa sei disposto a fare in quella direzione?
Mi chiamo Antonio Panella e vivo in Liguria in un bosco nell’entroterra di Sestri Levante, nel Comune di Castiglione Chiavarese. Faccio il teatrante. Mi sono formato in un teatro per ragazzi di Milano “Il teatro del sole” e in parallelo ho preso la laurea in filosofia. Insieme alla mia compagna Susanna Groppello ci siamo trasferiti nel 2001 in Liguria dove viviamo con due figlie. Qui abbiamo proseguito il nostro lavoro di teatro per infanzia e adulti formando il gruppo Teatrovelato. Volevamo costruire un teatro che uscisse dai luoghi canonici e che attraverso l’arte contribuisse a creare relazioni di benessere sul territorio realizzando un lavoro a km zero. Essendo inseriti in un contesto naturale tra mari e monti, le nostre attività si sono sempre rivolte a rafforzare una poetica che fosse occasione di consapevolezza del legame prezioso con la natura. La bellezza del lavoro con l’infanzia, curiosa e spesso disponibile per sua natura, ci ha permesso negli anni di creare una ricaduta anche sugli adulti e di avere una grande opportunità per cambiare lo sguardo su un territorio. Tutto questo grazie ad un lavoro certosino nel tempo in alleanza e fiducia con insegnanti e genitori.
Un’altra parte del mio lavoro si svolge con la fondazione Theodora, che manda artisti professionisti nelle pediatrie per lavorare in collaborazione con il personale medico ospedaliero per contribuire alla cura dei piccoli e delle piccole ricoverate. Il nostro intento è usare il gioco e l’arte per recuperare la parte sana del bambino e della bambina malata. In questa fondazione sono anche uno dei due formatori artistici.
Questa breve descrizione è per me intrecciata alla risposta della vostra domanda. Infatti tutte le scelte che ho intrapreso sono rappresentative di uno stile di vita che credo possa divenire una risposta concreta a questa crisi. Ritengo che questa esperienza ci mostri la fragilità’ su cui è impostata la modalità di vita dominante sul pianeta.
Il cambiamento che sono disposto ad attuare è vivere in modo ancora più fedele la scelta che ho fatto, ma non basta. E’ evidente che il cambiamento dovrebbe essere generale. Questo non mi giustifica dal non continuare a vivere nel modo in cui credo, perché è evidente che, per quanto il cambiamento sia complesso, ognuno debba fare la sua parte. Il problema è che questa pandemia sta rischiando (tra i tanti problemi emersi) di ridurre notevolmente le possibilità di vivere scelte fuori dal sistema dominante. Da una parte l’impostazione del sistema economico tende attraverso la crisi ad alimentare il divario tra le classi sociali, dall’altro soffoca con maggiore forza ogni forma di scelta alternativa.
Nello specifico della mia esperienza le possibilità di continuare il lavoro in ospedale si sono interrotte (nonostante i bambini e le bambine siano doppiamente isolati rispetto a prima). I teatri sono chiusi. Il lavoro di laboratori con le scuole si è potuto concludere grazie a contatti da remoto, ma per il futuro tutto è incerto. A ben vedere, tutti questi ambiti hanno a che fare con la cura e la relazione; più sarebbe necessario investire in questo settore (adesso forse più di prima) e meno si creano le condizioni per farlo.
Le scelte che ho perseguito, lette con gli occhi del sistema economico che tutti ci guida, sono scelte inutili. Non producono. Il fatto di essere riusciti a farlo per anni non è frutto di un privilegio, ma di scelte e rinunce come per ognuno nei propri percorsi di vita, ma le difficoltà del settore artistico in questo momento si sono amplificate e raccontano anche quali sono i valori che ci guidano.
Cosa servirebbe per appoggiare quel cambiamento, a livello personale e a livello sociale?
Cerco di rispondere a questa domanda solo con delle supposizioni.
Penso che il cambiamento possa avvenire tenendo collegato il livello personale e quello sociale, da tenere unito al livello di coscienza ambientale. La gente ha spopolato l’Italia interna, la maggior parte degli abitanti si concentra nelle città e sulla costa. Chi prova a rimanere è abbandonato a se stesso, non ci sono servizi che ti supportino, nonostante tenere puliti boschi e terre riduca danni anche per chi vive fuori dalla campagna.
Questa pandemia ha mostrato quanto sia fragile e insostenibile umanamente essere costretti in condizioni che non favoriscono la salute fisica e psichica delle persone. La maggior parte delle città non è costruita al servizio dei suoi abitanti. Di fondo ciò che manca è una volontà di vivere nello spirito della comunità. Credo sia prezioso sapere che ormai è impossibile non percepirsi su una stessa zattera: se si salva uno si salvano tutti, altrimenti saremo tutti destinati ad affondare. Questo come genere umano che ha la percezione di sé come il centro del mondo; il resto degli abitanti, soprattutto le piante, vivranno e si organizzeranno probabilmente anche meglio.
Lo sguardo dell’arte e del lavoro legato all’infanzia potrebbe offrire un contributo prezioso per costruire un’alternativa che usi il parametro di includere e non escludere. Tarandosi sull’infanzia, sui suoi bisogni, si costruirebbe un mondo che farebbe guadagnare in qualità della vita tutti e tutte. Riuscire a creare cambiamenti mettendo insieme le differenti esperienze, uscire dalle corporazioni, percepirsi soggetti con i medesimi bisogni, diritti e doveri, al di là del proprio ambito specifico, accomunati soprattutto dalla consapevolezza di creare un rispetto che collega tutto il pianeta.
Inoltre sarebbe un passo verso una consapevolezza maggiore dell’essenza di ogni esperienza. Riuscire ad arrivare al cuore delle cose. Spesso percepisco che non si mette l’istituzione al servizio della persona (penso alla scuola, agli ospedali), ma è la persona che deve adattarsi all’istituzione per farla sopravvivere.
A tale proposito vorrei chiudere citando Gianni Rodari e una sua frase che mi guida nel mio percorso umano e professionale e che penso si possa declinare in differenti ambiti. “Il concreto nell’educazione è la bambina e il bambino, non il progetto educativo, non il programma scolastico, non la tecnica didattica in se’. In un’impresa educativa il programma non dovrebbe essere l’elenco delle cose che ci proponiamo di ottenere dai bambini e dalle bambine, ma l’elenco di quelle che dobbiamo fare noi per essere utili ai bambini e alle bambine. Dovremmo elaborare delle regole per il nostro comportamento, non per quello dei bambini e delle bambine.”