Sono passati ventuno anni. Quel 10 Giugno 1999, tutti hanno avuto una parte di ragione nel reclamare la propria “vittoria”. Senza dubbio la NATO, che poteva mettere in risalto la tempistica del ritiro delle truppe jugoslave dal Kosovo, secondo un piano che, concordato nel negoziato condotto sul confine jugoslavo-macedone, sarebbe stato completato il 21 Giugno.
Ovviamente, con afflato più che propagandistico, il presidente statunitense del tempo, il “democratico” Bill Clinton, che non esitò nell’annunciare una «vittoria conseguita per un mondo più sicuro» e nel proferire l’ennesima minaccia, non sarebbe stata fornita alcuna assistenza nella ricostruzione della Jugoslavia, «fintantoché il Paese fosse stato governato da un presidente incriminato per crimini di guerra». E infine il presidente “incriminato”, Slobodan Milošević, che, a dispetto della martellante e criminale campagna di guerra della NATO, poté annunciare che l’obiettivo della sopravvivenza era stato almeno salvaguardato, «l’integrità territoriale del Paese», dal momento che «siamo sopravvissuti, abbiamo difeso il Paese e sollevata la questione al vertice delle istituzioni internazionali, le Nazioni Unite».
Gli Accordi di Kumanovo del 9 Giugno 1999 avevano infatti posto fine alla guerra, la Guerra del Kosovo, quella che tante volte è stata vissuta e interpretata come una vera e propria «guerra costituente» (la più compiuta, sino a quel momento, applicazione del paradigma umanitario per scopi militari, della strumentalizzazione per fini di potere e di conquista delle questioni dei diritti umani e della tutela delle minoranze, dell’aberrazione della cosiddetta «Responsabilità di Proteggere»), che ebbe il carattere di una vera e propria «guerra etno-politica», in cui appunto la variabile etnica veniva strumentalizzata per fini di potere e con obiettivi di guerra, e che si risolse in quella campagna martellante e criminale che tutti coloro i quali hanno vista, vissuta o subita, difficilmente potranno mai dimenticare.
Una campagna criminale: dopo i negoziati-farsa di Rambouillet, dopo una campagna propagandistica, di volta in volta, strumentale ovvero apertamente basata sulla mistificazione, intrapresa senza alcun mandato internazionale legittimo, fuori e contro le Nazioni Unite, fuori e contro il diritto e la giustizia internazionale. A tal punto che gli stessi Accordi di Kumanovo, lungi dal riproporre lo schema di Rambouillet, fissavano, insieme con la parte militare, alcune prescrizioni di portata generale: all’art. 1.1 «il dispiegamento in Kosovo, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, di una missione civile e militare internazionale efficace» e la segnalazione che «il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è pronto ad adottare una risoluzione … riguardante tale missione»; in base all’art. 1.2 «le autorità della Repubblica Federale di Jugoslavia e della Serbia concordano che la missione militare internazionale (KFOR) sarà dislocata a seguito dell’adozione di tale risoluzione del Consiglio di Sicurezza e opererà senza impedimento all’interno del Kosovo, con facoltà di intraprendere tutte le misure necessarie per stabilire e mantenere un ambiente di sicurezza per tutti i cittadini del Kosovo e portare avanti la propria missione»; secondo l’art. 1.4, pertanto, «al fine di stabilire una duratura cessazione delle ostilità, in nessuna circostanza le forze della RFJ o della Serbia potranno entrare, rientrare o restare all’interno del territorio del Kosovo … senza il preventivo esplicito assenso del comandante della missione militare internazionale. Alla polizia locale sarà consentito di restare nella Zona di Sicurezza Terrestre», definita come «la fascia territoriale di cinque chilometri che si estende dal confine amministrativo della provincia del Kosovo al resto del territorio jugoslavo»; un accordo successivo avrebbe poi disciplinato il rientro di personale serbo e jugoslavo nella provincia.
La guerra era dunque finita e si preparava il dopoguerra, sulle rovine di quelle che erano state le distruzioni, umane e materiali, prodotte da quella martellante campagna, durata settantotto, interminabili, giorni: si stima siano state uccise 2.500 persone (secondo altre fonti, 4.000), con 89 bambini, e più di 12.500 feriti, con danni materiali totali, secondo alcune stime, pari a 100 miliardi di dollari. I bombardamenti finirono, infatti, per distruggere o danneggiare 25.000 unità abitative, 470 chilometri di strade e 600 chilometri di binari; e poi 39 tra ospedali e centri sanitari, 87 tra scuole e asili, 176 monumenti, 38 ponti completamente distrutti. L’aggressione portò 2.300 attacchi aerei; 420.000 missili per complessive 22.000 tonnellate; e ancora, sempre per restare in tema di intervento «umanitario», 37.000 «bombe a grappolo», oltreché munizioni, vietate da tutte le convenzioni internazionali, con «uranio impoverito».
Gli Accordi di Kumanovo posero le basi della successiva, tuttora in vigore, Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 del 10 Giugno 1999: vi si riafferma «la sovranità e la integrità territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia e degli altri Stati della regione, come stabilito nell’Atto Finale di Helsinki» e vi si specificano i compiti della missione internazionale in Kosovo, tra cui, all’art. 9, prevenire la ripresa delle ostilità, assicurare il ritiro delle forze militari, paramilitari e di polizia della RFJ e della Serbia, smilitarizzare l’UCK (Esercito di Liberazione del Kosovo) e gli altri gruppi armati albanesi kosovari. La Risoluzione 1244 continua, ancora oggi, sebbene fonte di inesauribili dibattiti e controversie, a costituire la base di legalità per la regione e il presupposto di ogni ipotesi che sia fondata sulla «pace con giustizia».