Quando è iniziata la quarantena a causa dell’emergenza Covid-19 ho percepito una paura diversa da quella provata per tutta la vita: quella dell’incertezza assoluta. Mi sembrava tutto surreale, a tratti mi sentivo in quel famoso film, Contagion, che parlava proprio della diffusione di un virus trasmesso da goccioline respiratorie.
Tra libri e allenamento (era così che tiravo sera) aspettavo le 18 per il bollettino della Protezione Civile. Quando tardava mi dicevo: “Almeno tiro un po’ l’orario”. Poi il tg delle 20, con i giornalisti in studio vestiti di nero, che raccontavano il deserto in tutto il mondo e facevano vedere le immagini di Bergamo, a trenta minuti dal mio paesino, in cui vivono degli amici ai quali cercavo di stare più vicina possibile.
Quando hanno mostrato le immagini dei carri che portavano le salme fuori dalla città dentro di me sono esplose mille sensazioni, ma la più forte è stata la speranza. Strano, lo so, è stata una scena molto forte, ma è stato anche il momento in cui ho pensato: “Abbiamo toccato il fondo, è ora di un nuovo slancio verso una luce diversa.”
Da lì la quarantena mi è pesata molto di meno, anche se non è stata una passeggiata. I momenti di sconforto li abbiamo tutti, però avevo un’idea fissa in testa: quella del cambiamento. Il mondo ci ha lanciato un chiaro messaggio: fermatevi, state andando nella direzione sbagliata.
Il 18 maggio in Italia abbiamo potuto ricominciare a uscire senza autocertificazione (dopo due mesi e otto giorni) e vedere il mondo mi ha emozionata. Volevo mettermi in gioco per davvero, sentivo dentro una fiamma nuova: quella del cambiamento. A partire da me stessa e dalle piccole cose che riguardano la mia vita quotidiana, del resto se non si inizia da se stessi è un po’ dura pretenderlo dagli altri. Così la prima settimana è andata bene, mi sono sentita su un’onda che avrebbe portato a una svolta che aspettavo da mesi.
La seconda settimana si è aperta in maniera drastica: sui social è iniziato a girare un video, quel video, quello della morte di George Floyd, il cittadino afroamericano morto sotto al ginocchio di un poliziotto bianco a Minneapolis (Minnesota, Stati Uniti). Rabbia, paura, fame di giustizia. Quel giorno sono iniziate le proteste violente e nonviolente contro il razzismo a Minneapolis, che si sono poi diffuse a macchia d’olio fino a comprendere tutti e 50 gli Stati degli USA in pochi giorni.
È un momento storico molto importante, in cui tutti gli Stati Uniti e, per risonanza, il resto del mondo si stanno alzando in piedi per un momento tanto aspettato: mobilitarsi in massa contro le discriminazioni.
Le proteste sono nelle strade, ma anche sui social: il movimento “Black Lives Matter” sta sensibilizzando, mostrando interviste, testimonianze ed episodi (anche violenti purtroppo) per rendere le persone consapevoli di quanto sia grave il problema del razzismo in tutto il mondo, non solo in America.
Tutto questo mi ha preoccupata inizialmente, ma poi ho riflettuto: il cambiamento sta iniziando ad avvenire, possiamo vederlo, percepirlo e possiamo esserne parte.
L’attivismo non si è mai fermato, nemmeno durante la pandemia, ma ora siamo in tanti. Possiamo cambiare il mondo iniziando da oggi.
Come ha detto la figlia di 6 anni di George Floyd, “Daddy changed the World” (“Papà ha cambiato il mondo”): lei lo vede già il mondo nuovo. E’ tempo di mostrarlo a tutti.