L’11 febbraio fu annunciata la liberazione di Nelson Mandela. Questo fu l’inizio dell’abolizione del sistema di Apartheid. Le speranze di cambiamento per la maggior parte della popolazione africana furono allora immense. La riconciliazione tra neri e bianchi sembrava sulla buona strada, si parlava di nazioni “Arcobaleno”. Quale bilancio si può trarre 30 anni dopo?.
Pressenza ha incontrato Raphaël Porteilla, docente in scienze politiche dell’Università di Borgogna e specialista della scena internazionale del Sudafrica.
Oliver Flumian: Desmond Tutu aveva battezzato la nuova Africa del Sud la “Nazione Arcobaleno”. Questo appellativo è una leggenda? Qual è oggi la realtà dei rapporti razziali?
Raphaël Porteilla: Tutti conoscono le parole di D. Tutu, la “nazione Arcobaleno”. Ciononostante, tutti sanno anche che i suoi colori non si mescolano. Questa è, in sintesi, la situazione nel Sudafrica dove le razze sono rimaste l’una accanto all’altra. Si parla anche maggiormente di coesistenza e di unione nazionale.
Il corpus legislativo segregazionista e discriminatorio è stato abolito, le restrizioni spaziali o razziali sono state abrogate, in modo che tutta la popolazione sudafricana si riappropriasse del suo paese senza differenza razziale. In breve a livello teorico, le differenze non sono più ammissibili.
Tuttavia, se la diversità costitutiva di questo paese è una risorsa e un punto di forza, c’è ancora molta strada da fare affinché le relazioni interraziali siano complete.
Se i matrimoni misti sono stati celebrati, se dei quartieri bianchi hanno accolto dei neri (o dei meticci) in numero limitato, se la cultura, la scuola o lo sport hanno contribuito a ridurre le distanze razziali e hanno favorito gli incontri, la geografia sudafricana è ancora testimone di zone segnate dal colore della pelle: le scuole bianche hanno integrato le persone di colore ma con una percentuale molto bassa, al contrario della fantascienza, i quartieri bianchi si sono aperti agli altri accogliendo non tanto delle persone di colore o dei meticci ma delle famiglie che condividono gli stessi standard e tenori di vita. Questa classe media o elevata nera si è dunque integrata al mondo dei bianchi senza troppa difficoltà.
Ciononostante, i più poveri, i più svantaggiati sono ancora i neri nonostante anche i bianchi affrontino queste difficoltà. La democrazia sudafricana non è riuscita a cancellare tutte le differenze razziali, tutt’altro.
Olivier Flumian: Il panorama religioso sudafricano è marcato da una certa diversità (cristianesimo, sincretismo,…). Quale ruolo gioca la religione nelle relazioni sociali? Ha un’influenza sulla politica?
Raphaël Porteilla: La religione ha sempre svolto un ruolo nel Sudafrica sia ai tempi della colonizzazione che durante l’Apartheid e ancora oggi. Attualmente, molte riunioni pubbliche cominciano con una preghiera.
Il panorama religioso è soprattutto marcato dalla diversità (ancora una volta). Secondo i censimenti, circa l’80% dei sudafricani si dichiarano cristiani, suddivisi in diverse chiese e congregazioni. La più importante è la chiesta cristiana di Sion (CCS) che raggruppa circa 10 milioni di seguaci. Si tratta di una congregazione indipendente intorno al messaggio cristiano, includendovi degli elementi africani. Questo sincretismo si ritrova in altre congregazioni apostoliche, sioniste o pentecostali. La chiesa riformata olandese è costituita soprattutto da bianchi africani mentre i bianchi anglofoni sono collegati ad altre chiese protestanti. La chiesa cattolica costituisce, in numero di seguaci, la terza categoria e, anche se minoritaria, ha rivestito un ruolo importante opponendosi all’Apertheid. Esistono diverse chiese nelle comunità musulmane, induiste o ebraiche. Delle altre chiese, diciamo tradizionali, sono ugualmente presenti in tutto il paese. Infine, il 15% dei sudafricani dichiarano di non avere alcun legame religioso.
Durante l’Apertheid, alcune chiese (principalmente quelle riformate) hanno sostenuto questa politica prima di fare ammenda, altre l’hanno sempre combattuta.
Oggi è difficile dire se la religione ha un ruolo politico maggiore poiché le due sfere hanno una distanza marcata, senza per questo negare la sua importanza in alcune circostanze. Il carisma di D. Tutu durante il periodo di transizione e il ricorso a un vocabolario preso in prestito dalla religione, in quel momento, hanno aiutato a superare questa tappa. Inoltre, sul piano sociale, le opere sociali di tutte queste chiese, spesso costituiscono delle reti di protezione per i più poveri.
Oliver Flumian: Negli anni Settanta e Ottanta, gli artisti coinvolti contro la segregazione razziale, in particolare gli scrittori e i musicisti, hanno diffuso la cultura dei loro paesi. Quali sono i vantaggi di questa cultura oggi?
Raphaël Porteilla: La grande diversità di espressione e il suo straordinario dinamismo in tutti i campi artistici. Il romanzo, la letteratura, la musica ma anche il cinema, il teatro, la scultura, l’arte contemporanea/urbana, la danza ecc. sono delle arti molto attive e sono state riconosciute nel mondo anche nel periodo dell’Apertheid, in quanto specchio delle atrocità del regime, e oggi poiché decodificano la società sudafricana che passa da molteplici tendenze.
Gli artisti sudafricani sono noti per il loro sincretismo culturale che combina diversi registri e campi, a immagine del paese dell’arcobaleno. Questa diversità si osserva nelle grandi città (Città del Capo, Durban) dove sono famose le scene di produzione. La morte di Johnny Glegg, lo zulù bianco, nel luglio 2019 testimonia questo sincretismo musicale, l’incontro tra due culture e la sua potenza evocativa nonché un possibile Sudafrica.
Oliver Flumian: Lo sport sudafricano ha lasciato il segno 10 anni fa con la prima Coppa del Mondo in Africa e 25 anni fa con la vittoria dei Springboks durante la Coppa del Mondo di rugby. Lo sport è un vettore d’integrazione sociale tra le diverse componenti etniche della società?
Raphaël Porteilla: Come in altri posti, lo sport può veicolare questa forma d’integrazione al di là delle barriere razziali e produrre dei successi incontestabili. Il rugby ne è stato una testimonianza per uno sport di origine bianca che ha accolto i meticci e i neri. Mentre nel 1995 i Mondiali vinti dai sudafricani si sono potuti concentrare sull’unico giocatore meticcio, Chester Williams (morto nel 2019), è stata l’ultima vittoria in Coppa del Mondo della squadra lo scorso settembre a dimostrare il successo dell’integrazione di giocatori di tutti i colori; il capitano è ora un giocatore nero.
Anche il calcio è stato, in parte, lo sport della diversità e l’organizzazione della Coppa del Mondo nel 2010 ne è stata una conferma (ma in senso contrario poiché lo sport riservato ai neri, ha integrato i bianchi), in compenso questo diventerà un successo economico molto relativo. Tuttavia, questi due sport sono riusciti a creare un sentimento di appartenenza alla nazione sudafricana, fiera della sua diversità. In molti posti, la pratica dello sport ha facilitato gli incontri, il riconoscimento e la condivisione. Ma non tutte le barriere sono state rimosse e gli sforzi per integrarsi attraverso questo e altri mezzi dovrebbero continuare.
Oliver Flumian: La geografia del Sudafrica durante l’Apartheid era caratterizzata dalla segregazione spaziale diffusa sia nella città che nelle campagne. Si osservano oggi le stesse disuguaglianze territoriali? Che cosa è successo alle regioni con gli ex Batustan (territori indipendenti NdT)?
Raphaël Porteilla: Se si attraversano i paesi, è facile vedere come la geografia dell’Apartheid aveva compartimentato il paesaggio e segregato gruppi di popolazione. In tutte le periferie delle città, le townships (baraccopoli) esistevano e strutturavano lo spazio urbano. Anche se molte di queste zone sono oggi abitazioni in “difficoltà”, in parte collegate al sistema di elettrificazione e di approvvigionamento idrico, ai margini delle strade principali, questi “quartieri” sono ancora zone di povertà dove si affollano i dimenticati.
Per quanto riguarda i bantustan o le homelands, risultati della politica del grande Apertheid che consisteva all’assegnazione di 10 territori suddivisi all’interno del Sudafrica per “parcheggiare” i neri divisi in gruppi etno-linguistici al fine di fornire manodopera docile ed economica all’industria bianca, le frontiere che li delimitava sono scomparse. Questi bantustan sono stati integrate alle province da un astuto gioco di riorganizzazione territoriale, demografico, amministrativo e politico che si è finalmente svolto senza troppi problemi. Poiché questi territori erano caratterizzati dalla povertà e desolazione (si paragonano a delle dumping ground: discariche), anche le sfide socioeconomiche sono state complesse al fine di costruire le nuove province su una base egualitaria.
Oliver Flumian: Il Sudafrica è il primo responsabile dell’inquinamento del continente africano. Qual è la consapevolezza ambientale nella società a livello governativo? Gli effetti del cambiamento climatico sono visibili in Sudafrica?
Raphaël Porteilla: Il Sudafrica può apparire come un concentrato dei problemi ambientali del pianeta. È alle prese con la protezione e la conservazione di una ricca biodiversità: deserti e foreste, paludi, montagne e altipiani, zone marittime, costituiscono un patrimonio eccezionale.
Anche per il Sudafrica si tratta di modificare le regole del gioco, nel senso di una partecipazione efficace delle popolazioni locali. I paesi sono stati sottomessi ai danni di una industrializzazione devastatrice e di un’agricoltura commerciale produttivista: l’erosione del suolo, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, la gestione anarchica dei rifiuti tossici, come quelli dell’amianto e del settore minerario, che hanno colpito pesantemente la popolazione e in particolare quella delle townships, sottomessa a delle condizioni di vita insalubre, difficili da immaginare.
In Sudafrica, il carbone rimane un combustibile nazionale per gli impianti ma anche per le famiglie, causando danni alla salute e all’ambiente. Il piano di Zuma, che mira a installare delle centrali nucleari, è stato respinto a causa di una grande mobilitazione. Nello specifico, molte associazioni e ricercatori hanno sostenuto lotte importanti per mostrare i processi di intervento della società civile, l’invenzione di nuove forme di dibattito, l’apprendimento delle pratiche democratiche nell’area chiave dell’ambiente.
Come in altri luoghi, gli effetti del cambiamento climatico si percepiscono sia dalle piogge torrenziali che si abbattono regolarmente nel nord del paese sia dai casi di siccità che toccano il sud e che obbligano, a seconda delle regioni, a delle riduzioni drastiche di consumo d’acqua; questo penalizza sopratutto i meno fortunati.
Olivier Flumian: Il Sudafrica è stato per molto tempo uno stato paria del continente africano a causa della politica razzista del suo governo. Quale ruolo gioca la Repubblica Sudafricana sul continente africano?
Raphaël Porteilla: Con la democrazia e l’arrivo al potere di N. Mandela, lo status di questo paese è cambiato diametralmente. La personalità di Mandela ha giocato molto nel registro della conformità dei diritti umani e della riconciliazione al punto di intervenire come mediatore in molti conflitti in Africa (Burundi). Durante questo periodo, il Sudafrica è stato spesso mostrato come modello di transizione pacifica e ha suscitato l’interesse dei paesi africani.
T. Mbeki ha continuato questa dinamica per tutto il tempo della sua politica internazionale, pronunciata nel discorso “del rinascimento africano”. Tuttavia, questa prospettiva si è progressivamente evoluta verso una politica supportata da velleità di dominazione delle subregioni, ovvero il continente africano, offendendo molti paesi di grande rilievo (Angola, Nigeria). La sua integrazione dei paesi BRICS può d’altronde essere analizzata in questo contesto. J. Zuma ha tentato di continuare in questa direzione ma ottenendo poco successo, colpa di una reale prospettiva politica e con un minor carisma rispetto ai suoi predecessori.
Sul piano economico, le aziende sudafricane, si sono diffuse in numerosi paesi, apportando le loro competenze e risorse finanziarie nei settori delle telecomunicazioni, delle miniere, del commercio al dettaglio, del turismo, delle banche e delle bevande. Questa politica spesso aggressiva ha turbato molti paesi e le tensioni sono state tangibili ripetutamente, specialmente quando si trattava di eleggere il Sudafrica negli organismi internazionali, come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Olivier Flumian: La Repubblica del Sudafrica è membro del G20. Qual è la sua influenza?
Raphaël Porteilla: Dal punto di vista sudafricano, non c’è dubbio che l’influenza di questo Paese possa essere percepita come importante su alcune questioni e secondo la personalità che ha il compito di rappresentarlo. Ancora una volta, con Mandela, il Sudafrica ha avuto uno status indiscusso almeno sulle questioni dei diritti umani o, più specificamente, sulle questioni nucleari militari, con il Sudafrica che si è unito alle fila dei Paesi che hanno rinunciato alle armi nucleari.
Successivamente, sulla scena internazionale, Mbeki o Zuma non hanno raggiunto lo spessore di Mandela, anche le ambizioni internazionali non si sono concretizzate, oltre allo statuto dei paesi emergenti uniti al BRICS. Si deve quindi constatare che il Sudafrica è un paese di media importanza, che avvia delle buone relazioni con le grandi potenze ma senza avere una capacità di influenzarle, né di essere un attore che conta nell’ambito degli organismi internazionali.
Traduzione dal francese di Elisa Aiello