Il 4 Maggio di quest’anno, quarantesimo della scomparsa di Tito, è senza dubbio una delle ricorrenze maggiori di questo 2020. Josip Broz «Tito», nato a Kumrovec, in Croazia, il 7 Maggio 1892, morto a Lubiana, capitale della Slovenia, appunto il 4 Maggio 1980, è la figura saliente del socialismo jugoslavo, il principale ispiratore della “seconda” Jugoslavia, la Jugoslavia federativa e socialista, una tra le personalità maggiori del marxismo del XX secolo.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale, ha guidato il movimento partigiano in uno spazio e in un tempo in cui la resistenza jugoslava rappresentava la più consistente, eccezion fatta per quella sovietica, dell’intera Europa. È stato presidente della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia dal 14 Gennaio 1953 fino alla fine, e ha rappresentato il simbolo della «fratellanza e unità» tra i popoli slavi del Sud e della politica dell’internazionalismo e della co-esistenza pacifica nella regione e nel mondo.
È stato, sotto questo rispetto, uno dei leader del Movimento dei Paesi Non Allineati (NAM), con Jawaharlal Nehru (India) e Gamal Abdel Nasser (Egitto). La nozione di una «via autonoma al socialismo», nella originale elaborazione titina, si basava su alcuni principi tanto innovativi quanto attuali: la fratellanza e l’unità tra i vari popoli e nazionalità, confermata principio basilare con la nuova Costituzione Jugoslava del 1974, con la quale la Jugoslava veniva definita una «comunità socialista democratica auto-gestita dei lavoratori e dei cittadini e dei popoli e delle nazionalità su base di eguaglianza»; la proprietà sociale dei fattori produttivi da parte dei lavoratori attraverso l’articolazione dell’auto-gestione basata sul «libero lavoro associato con mezzi di produzione di proprietà sociale e l’auto-governo degli operai nella produzione»; la co-esistenza pacifica e le relazioni paritarie con gli altri popoli del mondo, come istanza del principio di auto-determinazione.
Ed in questo senso è forse proprio questa elaborazione di «via nazionale al socialismo», la conferma cioè della praticabilità della trasformazione dello stato e della società in senso socialista, in coerenza con il retroterra storico e culturale, sociale e materiale di ciascuna realtà nazionale, il lascito, in tutte le sue articolazioni e declinazioni, più coraggioso e più promettente della sua eredità storica e politica.
Non a caso, questa elaborazione colloca la sua al fianco delle analoghe sperimentazioni, che, fondate sulla stessa premessa, peraltro anche teorico-politica, oltre che politico-programmatica, sono state o continuano ad essere concepite e praticate nel corso del XX secolo ed oltre. Tra i riferimenti cruciali, in questo senso, non può mancare l’elaborazione di Palmiro Togliatti, affidata al Memoriale di Yalta (1964), nella quale, intanto, tra i vari spunti cui accenna e le molte sollecitazioni che propone, indica che «una più profonda riflessione sul tema della possibilità di una via pacifica al socialismo ci porta a precisare cosa noi intendiamo per democrazia in uno Stato borghese, come si possono allargare i confini della libertà e delle istituzioni democratiche e quali siano le forme più efficaci di partecipazione delle masse operaie e lavoratrici alla vita economica e politica» e, in definitiva, «anche nel campo socialista, forse – sottolineo questo forse perché molti fatti concreti ci sono sconosciuti – bisogna guardarsi dalla forzata uniformità esteriore e pensare che l’unità si deve stabilire e mantenere nella diversità e nella piena autonomia dei singoli Paesi. […]
Noi riteniamo che anche per quanto riguarda i Paesi socialisti bisogna avere il coraggio di affrontare con spirito critico molte situazioni e molti problemi, se si vuole creare la base di una migliore comprensione e di una più stretta unità di tutto il nostro movimento». Del resto, già nell’immediato dopoguerra (vi accennò, tra gli altri, Georgi Dimitrov nel 1946), era stata avanzata la testi in base alla quale ogni popolo avrebbe dovuto e potuto avviare la «edificazione del socialismo» in base a una «via propria», in linea con il marxismo ma non in maniera dogmatica, sperimentando, appunto, una «via nazionale» come la più adeguata e la più pertinente alla situazione storica e sociale concreta.
Nell’elaborazione di Tito e nel contesto particolarissimo della Jugoslavia, questo approccio non poteva non trovare una rilevanza cruciale: da lì maturò quel singolare esperimento, fatto di federalismo, unità nella diversità dei diversi popoli e gruppi nazionali, complessa articolazione ed equilibrio dei poteri, auto-gestione operaia e produttiva, internazionalismo e non-allineamento, che avrebbe dato luogo, per diversi aspetti, ad una nuova grammatica per le forze di pace e di progresso a livello mondiale. Del resto, Tito non a caso aveva scelto il palcoscenico della Accademia Slovena delle Arti e delle Scienze (Lubiana, 26 Novembre 1948) per una prima compiuta elaborazione del tema inerente alla “questione nazionale e sociale”: «I nostri lavoratori hanno il diritto di sperimentare e mettere alla prova le loro capacità e la loro vitalità, dal momento che si sono liberati dall’oppressione nazionale e dall’oppressione sociale. Ciò è essenziale per diverse ragioni, in primo luogo perché comprendono che sono capaci di affermare e costruire una nuova società […]. I nostri popoli hanno compiuto sinora tali progressi nella loro coscienza, da avere già compreso che non possono vivere l’uno senza l’altro; hanno compreso che la nostra comunità pone le basi per uno sviluppo complessivo, economico, culturale, politico; hanno visto che … garantisce sicurezza alla loro esistenza e per il loro sviluppo pacifico».
Perfino profetico, a volgervi uno sguardo in retrospettiva.