Esistono vite che non meritano di essere vissute? In Chiapas sembra proprio di sì. Medici appartenenti a istituzioni di sanità pubblica si arrogano il diritto di decidere al posto delle madri la possibilità di rimanere incinta o meno, spesso attraverso l’inganno o la coercizione.
Lo Statuto di Roma, ossia il trattato internazionale istitutivo della Corte Penale Internazionale, considera la pratica della sterilizzazione forzata “un crimine contro l’umanità”, mentre le Nazioni Unite nel 2013 hanno considerato questa pratica “un atto di tortura”. In Messico la sterilizzazione forzata è tuttora vigente nelle cliniche rurali e in alcuni ospedali; il Chiapas ne è un triste esempio, nonostante l’articolo 67 della Legge Generale della Salute dichiari che “coloro i quali pratichino la sterilizzazione senza la volontà del paziente o esercitino pressioni affinché questo la accetti, saranno sanzionati”. La Commissione Nazionale dei Diritti Umani (CNDH) denunciò già nel 2002 che “il personale medico appartenente a istituzioni di sanità pubblica delle cliniche rurali obbliga donne indigene a sottomettersi a processi di sterilizzazione” sotto la minaccia di perdere gli aiuti economici provenienti dai programmi governativi.
Da anni giovani donne indigene tseltales e tojolabales, sia nelle loro comunità rurali di origine vicine ad Altamirano che nell’ospedale (IMSS) dello stesso paesino, dichiarano di avere subito pratiche forzate di sterilizzazione da parte del personale medico della sanità pubblica. “Circa venti anni fa vennero nella clinica della comunità dei medici che ci dissero di presentarci per il controllo del papilloma virus. Ci fecero firmare dei fogli dicendo che era per il nostro bene, ma noi non sappiamo leggere. Presto ci accorgemmo di non riuscire a rimanere incinta e capimmo di essere state ingannate.” denuncia una donna tojolabal di una comunità a sei ore di marcia da Altamirano. “Non ci fidiamo più dei medici né dell’ospedale del paese. Ci chiamano indios e si burlano di noi solo perché siamo poveri. Non ci spiegano le malattie che abbiamo (riferendosi ai tecnicismi verbali a cui ricorrono molti medici durante le spiegazioni cliniche, incomprensibili specialmente a persone la cui lingua madre non è lo spagnolo n.d.r.). Come possiamo curarci? Quando gli chiediamo di ripetere alcuni ci guardano con disprezzo. All’ospedale mancano le medicine e non sempre riusciamo a curarci con le piante medicinali” afferma la signora tojolabal. La stessa signora mi ha mostrato un fotografia con il DIU, il dispositivo intrauterino contraccettivo immesso con l’inganno nei corpi delle donne della comunità; in pochi casi i genitori o gli stessi mariti delle donne vittime di questi abusi si sono presentati all’ospedale obbligando i medici a rimuovere questi dispositivi sotto minacce di denuncia.
A poche ore di cammino da Altamirano vive una giovane famiglia in una comunità di tseltales, “Da quando mia figlia è uscita dall’ospedale col suo neonato, un anno fa, non ha più potuto avere bambini. Ha pianto per molto tempo. Abbiamo scoperto che i medici dell’ospedale del paese l’avevano operata (chiusura delle tube) senza avvisarla. Spesso le parteras (figure paragonabili alle nostre levatrici) della comunità, formate però dal governo, cercano di convincere le giovani madri a farsi operare in ospedale dopo il parto cesareo. I dottori ne approfittano per operare le nostre figlie” racconta il padre della vittima.
“Pochi mesi fa ho dato alla luce mio figlio; in ospedale i medici mi hanno domandato se volevo continuare ad avere figli. Hanno cercato di convincermi a operarmi, dicendo che era per il mio bene e che avrei vissuto una vita felice senza tanti figli. Hanno insistito a lungo e io mi sono sentita a disagio” racconta una ragazza mestiza di Michoacan emigrata ad Altamirano per sposarsi con un indigeno tseltal. “Sono riuscita a uscire dall’ospedale senza che mi operassero, ma alle mie parenti (riferendosi alle donne tseltales della famiglia del marito) hanno fatto più pressioni” continua la ragazza.
In una piccola comunità a poche ore di cammino da Altamirano, una signora tojolabal mi ha mostrato il suo braccio destro indicando un dispositivo elettronico sottopelle che le è stato impiantato poco meno di due anni fa, dopo aver dato alla luce sua figlia Guadalupe, da alcuni medici dell’IMSS del paese. “Mi hanno detto che era per il mio bene e che mio marito era d’accordo. Continuavano ad entrare e uscire dalla sala parto. Ho accettato, ma ora me ne pento. Una volta usciti dall’ospedale, quando gli chiesi perché avesse accettato la proposta dei medici, mio marito mi rispose che non sapeva di cosa stessi parlando. Ci hanno ingannati; amo stringere tra le mie braccia le creature (modo in cui vengono definiti i figli dagli indigeni tseltales e tojolabales della zona di Altamirano n.d.r.). Sono un dono” racconta la madre di Guadalupe. Purtroppo poche vittime di queste pratiche denunciano il personale medico; la maggior parte di queste donne per vergogna, impotenza, rassegnazione, senso di inferiorità nei confronti dei mestizos, mancanza di informazioni o a causa della forte corruzione del sistema stesso, non sporge denuncia o non riesce a portarla a termine.