Il 3 maggio è la Giornata mondiale della libertà di stampa, proclamata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 3 maggio 1993 (ormai 27 anni fa!) seguendo una raccomandazione della Conferenza Generale dell’Unesco, la data fu scelta perché due anni prima la stessa UNESCO dal 29 aprile al 3 maggio aveva organizzato un seminario per promuovere l’indipendenza e il pluralismo della stampa africana. Un evento di portata mondiale da cui scaturì la “Dichiarazione di Windhoek” che richiama l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani “ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione, tale diritto include la libertà di opinione senza interferenze e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza frontiere”. Il Consiglio d’Europa sul suo sito web istituzionale riporta che questa celebrazione “rappresenta da un lato un’occasione per promuovere azioni concrete e iniziative finalizzate a difendere la libertà della stampa, ma dall’altro è anche un’opportunità per valutare la situazione della libertà di stampa nel mondo”, che la sua azione è “a favore della libertà della stampa e dell’informazione è basata sull’articolo 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, che riconosce tale diritto fondamentale come la pietra angolare della democrazia”.
Alti proclami e una giornata mondiale di celebrazioni, la libertà di stampa ci si aspetterebbe che sia tra i beni comuni più tutelati e valorizzati esistenti. La realtà, invece, ancora una volta si rivela ben diversa e il giornalismo, la stampa libera e indipendente resta sempre in pericolo. A tutte le latitudini tutti i governi e le istituzioni dichiarano di avere un’altissima considerazione della libertà della stampa e di difenderla, accade in Europa e in Italia, negli USA, persino in luoghi come la Turchia. Ma, così come la legalità democratica, la lotta alle mafie e alla corruzione, la verità sui giochi sporchi del potere, solo quando non danno fastidio, quando non rompono le cappe dell’omertà, dell’omologazione, dei propri interessi consolidati. Basta scorrere i social per trovare insulti, attacchi, parole di ogni tipo contro i giornalisti e la stampa, anche un solo articolo che non sia allineato al proprio pensiero unico per vedersi vomitare addosso di tutto compreso l’auspicio di essere aggrediti o di morire. Destino simile a quello, per esempio, dei magistrati e di coloro che realmente in prima linea sono impegnati nella denuncia e nel contrasto alle mafie: pullulano le cerimonie e i post sui social network su Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Peppino Impastato, su come è una vergogna che i loro sacrifici siano stati dimenticati e sarebbero stati resi vani. Poi scorri le stesse bacheche, vedi gli stessi comportamenti concreti di rappresentanti istituzionali, politici, attivisti e “cittadini” e si comportano esattamente come chi considerava scandaloso Peppino o isolò e cerco di delegittimare Falcone e Borsellino. Nell’Italia del 2020 dove le mafie già stanno sfruttando l’emergenza sanitaria ed economica, dove corruzione e colletti bianchi impazzano basta che un magistrato o un giornalista antimafia esprimono mezza parola, facciano un quarto di atto e si scatena la canea contro di loro, possono parlare le penne (anzi, oggi dovremmo scrivere le tastiere) più serventi, i saltimbanchi di ogni epoca, i coinvolti nei peggiori giochi sporchi ma loro non sarebbero legittimati ad esprimere, dovrebbero per lor signori tacere e anche vergognarsi di esistere.
Minacce e precarietà contro la stampa libera italiana
«Le minacce alla libertà di stampa sono minacce al diritto dei cittadini ad essere informati – denuncia la Federazione Europea dei Giornalisti – Restrizioni ai media, chiusure di giornali, controllo sulle aziende del servizio pubblico, precarietà e insicurezza delle condizioni di lavoro, intimidazioni e violenze contro i lavoratori dell’informazione sono alcuni dei molti modi di comprimere la libertà di stampa proprio mentre la pandemia di Covid-19 sta minacciando le nostre vite e l’intera economia globale. In questo momento i giornalisti e il giornalismo di qualità sono essenziali». Ma a quanto pare questa qualità non sembra essere per troppi italiani un bene prezioso a cui prestare attenzione. Lo dimostra, in questi ultimi giorni, che senza curarsi minimamente della qualità e del contenuto dei suoi servizi ancora una volta in quest’ultimo periodo contro l’inviata RAI Giovanna Botteri si è scatenato l’odioso fenomeno del body shaming come ha denunciato Articolo21 (https://www.articolo21.org/2020/04/giovanna-botteri-spettinata-e-bravissima-diciamo-basta-al-body-shaming/ ). Tanti sono i giornalisti italiani insultati e minacciati, tra i casi più conosciuti Sigfrido Ranucci e Report per le inchieste sulle menzogne e le trame neofasciste e l’ex direttore di Repubblica Carlo Verdelli. Contro la redazione del programma RAI e il suo direttore si sono scatenate ripetute minacce di ogni tipo e gli attacchi più squallidi e violenti possibili, non si contano sui social i post, i commenti e i gruppi (che ne chiedono anche la chiusura). È stato diffuso nelle scorse settimane addirittura un manifesto funebre con tanto di data contro Verdelli per le denunce della galassia eversiva neofascista, e ha colpito l’assurda coincidenza tra quella data e il suo licenziamento da direttore del quotidiano, che ha portato all’assegnazione della scorta per tutelare la sua sicurezza. Situazione analoga per l’autore di Nazitalia e, dopo i tanti articoli di questi anni, della rubrica Pietre sempre su Repubblica Paolo Berizzi e Federica Angeli, autrice di inchieste e libri sulla mafia ad Ostia, sulla violenza, gli affari e le complicità di ogni tipo (anche nella galassia neofascista) del clan Spada. È stato minacciato nelle ultime settimane due volte un altro cronista di Repubblica Salvo Palazzolo che ha documentato, tra l’altro, la presenza di un personaggio proveniente da famiglie mafiose nella distribuzione di aiuti durante quest’emergenza. Un fenomeno segnalato in più località italiane, quello di clan mafiosi che stanno sfruttando l’emergenza per accreditarsi presso le fasce più impoverite e fragili della società per poi presentare “conti salati” nei prossimi mesi arruolando nuova manovalanza per le attività criminali.
Aumentano le aggressioni di giornalisti che documentano attività criminali ed eversive in varie zone calde della Penisola e cresce il numero dei giornalisti minacciati e sotto scorta. Giornalisti che dovrebbero essere tutelati, difesi, le cui inchieste dovrebbe essere dovere civico e morale far conoscere, diffondere, considerare patrimonio comune ed invece sono anche oggetto di campagne di fango, menzogne, delegittimazione. Oltre i già citati negli ultimi anni possiamo citare, per esempio, Sandro Ruotolo, Paolo Borrometi, Michele Albanese, Lirio Abbate, Giovanni Tizian, Roberto Saviano, Marilena Natale e Rosaria Capacchione. L’anno scorso Nello Scavo e Nancy Porsia documentarono definitivamente gli accordi e le complicità italiane con il boss libico del traffico di esseri umani Bija, dopo ripetute minacce ad ottobre entrambi sono stati messi sotto protezione. Fatti che dimostrano quanto, sotto ogni velo di propaganda, odio, campagne che superano ogni limite di decenza, i veri intrecci criminali, gli affari mafiosi sulla pelle dei migranti sono argomento delicato ed importante. E non essendo utile per taluni interessi elettorali e di potere (e ormai non c’è più neanche bisogno di ricordare quali, è lampante chi sulle sofferenze, i drammi e le lacrime dei più disperati tra i disperati lucra e specula …) chi ne parla è a rischio. Poco meno di un anno fa erano arrivati a 22 i cronisti italiani sotto scorta, 4 in più dell’anno precedente. Una situazione a cui, come sottolinea la Federazione Europea dei Giornalisti, si aggiunge il ricatto della precarietà, degli articoli pagati pochissimo, la totale insicurezza economica (come ha sottolineato in questi giorni Articolo21 https://www.pressenza.com/it/2020/05/1-maggio-superare-il-precariato-per-dare-dignita-a-migliaia-di-giovani-e-meno-giovani/ ) di chi non si accontenta delle veline del padrone e dei piccoli e grandi potentati economici e della diffusa borghesia mafiosa. Nessuna vera libertà di stampa sarà possibile se chi vuole diventare giornalista, seguire la strada e il giornalismo etico di Pippo Fava si trova davanti ad un bivio: mollare ed accontentarsi di essere asservito o rischiare ogni giorno senza nessuna tutela e difesa. Minacce a cui si aggiunge sempre il rischio di una querela, di una richiesta in sede civile, che arrivano a prescindere dal merito dell’inchiesta ma solo a scopo intimidatorio. Vengono definite “querele temerarie” e rappresentano una tremenda spada di Damocle per ogni giornalista indipendente e precario. Sono anni che vengono promesse leggi per tutelare la stampa libera e frenare questo fenomeno ma finora tutto è rimasto lettera morta. L’Italia è stata condannata due volte dalla Corte Europea dei Diritti Umani che dal 1996 invita gli Stati membri a rimuovere le norme che prevedono il carcere per i giornalisti, leggi che violano l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. Davanti alla Corte Costituzionale pendono due giudizi incidentali di legittimità sollevati dai giudici di Salerno e di Modugno-Bari. Dalla memoria depositata alla Consulta il 31 marzo scorso “sappiamo che il governo italiano non disdegna l’idea di veder finire qualche giornalista nelle patrie galere – denuncia Ossigeno per l’informazione (https://www.ossigeno.info/al-governo-piace-il-carcere-per-i-giornalisti/) che ha espresso una indignata protesta e chiede chiarimenti al governo (https://www.ossigeno.info/carcere-si-o-no-ora-il-governo-deve-chiarire/ ) – Lo sappiamo, o meglio lo deduciamo, poiché l’Avvocatura dello Stato, chiamata a rappresentare la posizione della presidenza del Consiglio davanti alla Corte Costituzionale, sostiene questa tesi, nero su bianco, nella “memoria difensiva” depositata il 31 marzo 2020 presso la Consulta”.
Alessandro Bozzo è stato un giovanissimo cronista precario di Cosenza. Giornalista di punta della cronaca regionale, essenziale e tagliente nello stile, scomodo e senza sconti nelle sue denunce, Bozzo si è suicidato il 15 marzo 2013. In realtà precario lo era diventato quando il suo contratto venne trasformato da tempo indeterminato in tempo determinato. Sono ormai 7 anni che Bozzo non c’è più, non può più denunciare,
scrivere articoli, raccontare la cronaca e il suo territorio. Continuano invece ad impazzare e restano sempre “liberi” di potersi esprimere improbabili opinionisti di comodo, giornalisti (tali solo perché hanno un tesserino in tasca) amati e coccolati dal jet set, direttori ed ex direttori di quotidiani anche quando la loro carriera è stata costellata di insuccessi e flop. Personaggi che si atteggiano a illuminate autorità morale dell’altrui comportamento, sempre costruendo verità di comodo per il suo padrone del momento, imprenditori, politici e mafiosi vari oggetto (cosa a quanto pare per loro inaccettabile) di indagini e inchieste della magistratura e della stampa indipendente.
Turchia ed Egitto immensa prigione contro la stampa libera
A livello mondiale il caso più eclatante, ormai quasi del tutto dimenticato in Italia tranne che da associazioni, comitati e poche realtà editoriali indipendenti, è quello di Julian Assange. La vita del fondatore di Wikileaks è sempre più a rischio come abbiamo costantemente riportiamo (https://www.pressenza.com/search_gcse/?q=Assange ), i suoi cabli hanno svelato al mondo cosa c’è dietro le menzogne di regime di ogni tipo, vi troviamo documenti importantissimi sulle guerre (a partire dall’Iraq) e tante altre vicende, compresa la terra dei fuochi campana e gli intrecci tra camorra, massoneria, imprenditori senza scrupoli, pezzi dei servizi segreti e delle istituzioni. Per aver reso questo servizio alla verità Assange potrebbe morire, ucciso dalle disumane condizioni di prigionia. Ucciso come lo è stato Giulio Regeni, i comitati che si battono per verità e giustizia, associazioni per i diritti umani, la sua famiglia continuano a denunciare (https://www.pressenza.com/it/tag/giulio-regeni/ ) lo scarso impegno italiano nei confronti del governo egiziano, il continuo arresto di reporter e blogger indipendenti nel Paese, le violazioni ripetute dei diritti umani nell’Egitto con cui l’Italia continua a mantenere rapporti economici (dalle fonti energetiche fossili alla vendita di armi) e politici stretti. E, tra gli arrestati, continua ad esserci – ormai nel silenzio italiano, rotto solo da Amnesty International e le realtà indipendenti – di Zaki, lo studente dell’Università di Bologna.
Tanti sono i regimi che hanno trasformato il loro Stato in un’immensa prigione per i giornalisti indipendenti tra cui la Turchia, un altro paese con cui l’Italia e l’Unione Europea mantengono stretti rapporti politici, economici e militari. Rapporti che permettono al regime di Erdogan di continuare a reprimere il popolo turco e violare ogni diritto umano soprattutto nella guerra spietata e infinita contro i curdi. Al 4 giugno dell’anno scorso nelle carceri turche erano prigionieri 157 giornalisti (https://www.retekurdistan.it/2019/06/04/157-giornalisti-in-carcere-in-turchia/ ), già due anni prima era stato calcolato che la metà dei giornalisti imprigionati nel mondo fossero prigionieri nelle carceri del regime di Ankara. Tra il 29 febbraio e il 4 marzo di quest’anno almeno quattro giornalisti sono stati fermati nella provincia di Edirne mentre stavano raccontando il dramma dei migranti, negli stessi giorni ad Istanbul è stato arrestato il direttore di Oda Tv dopo l’inchiesta pubblicata sul sito della testata sui soldati turchi morti nella guerra in Libia. Al 7 aprile i giornalisti arrestati perché stavano raccontando l’emergenza covid19, criticando la linea e i silenzi del regime di Erdogan, erano già 410.