Continua la nostra inchiesta sulla chiusura della struttura umanitaria in piazza d’Armi a Torino, destinata ai senza fissa dimora.
Ieri sera in piazza Palazzo di Città, dopo la distribuzione del cibo ai senza fissa dimora presidianti, S. (attivista) mi parla delle persone anziane italiane che sono in piazza d’Armi, che sono rimaste senza un tetto sotto cui dormire dopo la chiusura del “dormitorio” di piazza d’Armi.
Ci diamo appuntamento davanti alla caserma dei Carabinieri di piazza d’Armi per le 5 del mattino.
S. non arriva, mi farà sapere in mattinata che si è fermato in piazza Palazzo di Città fino alle 3 di notte per dare una mano.
Ad un certo punto scendo dalla macchina e decido di andare da solo a parlare con queste persone.
Mi presento, ci salutiamo e cominciamo a parlare.
Sono un gruppo di otto persone, si sono appena svegliate, stanno ripiegando la roba, con gesti lenti, si aiutano, hanno come un rituale comune, lo portano avanti in sintonia, senza nemmeno il bisogno di parlarsi.
A parte la signora, che ha 48 anni, 4 signori sono ultra sessantenni, gli altri ultra cinquantenni.
Uno di loro è un bracciante agricolo, un altro un ex operaio, un ex panettiere, una donna che sembrerebbe avere diritto a tutti gli effetti ad una continuità terapeutica/assistenziale.
Sono tranquilli, si rispettano l’uno con l’altro, si aiutano.
Il più anziano è stato operato alle anche, i compagni mi dicono che fa moltissima fatica a deambulare.
C. (l’iniziale del nome di uno di loro) mi racconta che l’anno scorso ha perso tutto, sembrano tutti finiti negli antri bui della ragnatela della burocrazia, antri dai quali non riesci ad accedere a forme di tutela, dai quali è difficile uscire.
I moduli abitativi usati per l’accoglienza questa mattina non c’erano più, in tre giorni hanno portato via tutto, segno che quando c’è la volontà si agisce rapidamente e con efficienza.
Mi raccontano che nella struttura erano, anche se non quotidianamente (inspiegabile vista l’emergenza sanitaria), monitorati, venivano loro distribuite le mascherine di protezione, ora ovviamente non avviene più nulla di tutto questo.
Mi dicono: “ora dobbiamo dormire fuori, e se piove?”.
Il dormitorio di via Carrera è chiuso, e poi “è a rotazione – mi raccontano – stai lì per un po’ e poi devi lasciare il posto a qualcun altro, e poi? Sei di nuovo per strada”.
Continuano a muoversi riponendo le loro cose, continua il rituale, non parlano del passato, parlano solo del presente, C. mi dice: “Non è che vogliamo chissà cosa, non ci aspettiamo la luna: vorremmo solo un posto dove poter dormire”.
La domanda è: ma davvero un Comune come Torino non è in grado di provvedere con soluzioni minimamente dignitose? E’ davvero una cosa credibile?
Sto per andare e chiedo loro: “ora cosa fate?”
“Adesso? andiamo un po’ in giro per la città”.
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