Durante questo periodo di pandemia tutti i paesi continuano ad andare verso una direzione univoca dove si considera soltanto ciò che è calcolabile economicamente, unico imperativo che prescinde da tutto.
I diritti umani e costituzionali sono stati sistematicamente violati durante questo periodo di difficoltà. Ma non solo, gli affetti e l’istruzione sono argomenti che nessuno sembra ancora aver preso in seria considerazione; eppure, sono elementi fondamentali, cui, senza questi medesimi, la vita di ognuno di noi non sarebbe degna di essere chiamata tale. Ma anche i rischi di contagio nelle carceri e la tutela della salute dei detenuti, i sussidi per i bambini alle famiglie che torneranno al lavoro, il problema dei contagi nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR), i problemi delle famiglie arcobaleno, la solitudine degli anziani, le violenze in famiglia, il disagio mentale di chi un lavoro non ce l’ha più, la mancanza della disponibilità di strumenti tecnologici. Questioni che sembrano essere secondarie dinanzi a quelli che il calcolo del PIL continua a prioritizzare; e pensare che, dall’inosservanza di tali elementi, è proprio il PIL a risentirne nel lungo termine. Si ha l’impressione che il benessere e le vite umane, nel senso lato del termine, siano problemi di serie B, pronti a scalare ulteriormente lettera dell’alfabeto non appena ci troveremo di fronte a nuove questioni che sono meglio quantificabili in termini economici.
L’esemplificazione di quanto appena detto, riguarda la regolarizzazione delle persone attualmente irregolari sul nostro territorio. Persone senza un permesso di soggiorno e non clandestini; in un paese dove troppo spesso il sostantivo prevale sull’aggettivo.
Sono anni che si parla di regolarizzazione ma solo adesso la cosa è diventata ragione di un dibattito politico concreto. Il Covid-19 ha reso noto che senza il loro aiuto enormi settori si troverebbero paralizzati, oltre al fatto di non poter avere il controllo della pandemia sul territorio non riuscendo a tracciare i contagi delle persone cosiddette invisibili. Quindi, appunto gli invisibili, tutto d’un tratto sembrano essere diventati ben percettibili a chi da decenni continua a glissare su un problema molto serio del nostro paese.
L’urgenza espressa in questi giorni nel dibattito mediatico e politico è richiamata da un bisogno economico, siamo ben lungi dall’intenzione di porre i diritti dell’essere umano al centro di qualsiasi manovra politica e sociale. Si parla di persone attualmente irregolari, ma l’attenzione sembra rivolta ai lavoratori nel settore agricolo schiacciati dalla GDO, tralasciando quelli che lavorano nei settori che spesso favoriscono la nostra economia sommersa: riders, badanti, colf, artigiani. Al di là della vitale importanza di questi lavoratori, si continua a non tenere conto che si tratta di persone e non di braccia da usare e regolarizzare in modo provvisorio per aiutare la nostra economici, esseri umani che godono dei nostri stessi diritti. Secondo le stime più recenti, in Italia le persone attualmente irregolari sono più di 600.000 (ISPI, 2020). Persone che vivono in contesti dove i diritti umani e costituzionali sono violati ogni giorno, persone in piena sofferenza fisica, con disturbi post-traumatici e spirituali; aspetti che in questo momento vengono ancora sottovalutati con la retorica del “servono a non far marcire la frutta nei nostri campi”.
Verrebbe da chiedersi dov’è il rispetto dei diritti umani o una chiara visione politica quando si parla di una regolarizzazione di sei mesi o solo per una stagione di raccolta. Insomma, il problema va ben oltre la retorica che giustifica la regolarizzazione per una questione di bisogno e utilità. Questione specificata più volte da Aboubakar Soumahoro che con delle lezioni di umanità sottolinea il dovere di regolarizzare i lavoratori stranieri in quanto esseri umani e non per utilità di mercato. Riguarda persone che soffrono e continueranno a soffrire se non facciamo qualcosa di lungimirante e visionario. Quando si discute di diritti umani, la tesi del praticismo e del “fare ciò che ci conviene” non è accettabile in un paese che può definirsi civile.
In difesa dei diritti umani e contro il caporalato, Daphne Caruana Galizia scriveva: “nella psicologia dei datori di lavoro potrebbe venire a crearsi una tendenza intrinseca che, in assenza di una regolamentazione, potrebbe portare a sfruttare i più deboli”. Parole che contengono il vero senso di regolarizzazione che va al di là della loro utilità, ma è di importanza cruciale per tutelare le vite umane e tirarle fuori dalle dinamiche del caporalato.
Una eventuale regolarizzazione di sei mesi senza condizionalità di rinnovo, o solamente dei lavoratori impegnati nel settore agricolo, continua ad essere distante da un decreto che metta al primo posto il valore dell’essere umano.