La regola imprescindibile (“Non c’è alternativa”, diceva Margaret Thatcher e dopo di lei lo hanno ripetuto e continuano a ripeterlo quasi tutti i governanti del mondo) dell’organizzazione sociale del pianeta in cui viviamo è la “crescita”: l’aumento, anno dopo anno, del Prodotto interno lordo, detto PIL, il vero totem della nostra epoca, senza il quale quell’organizzazione sociale non sta in piedi. La crescita è grosso modo quella cosa che Karl Marx chiamava “accumulazione del capitale”: una regola a cui nessun capitalista può sottrarsi e di cui nessuna società che affidi al mercato la sua sopravvivenza può fare a meno.
Da tempo, cioè da quando la produzione di beni materiali attraverso la trasformazione di materie prime estratte o sottratte alla Terra non risulta più sufficiente a garantire al capitale quel surplus – i profitti – che consente all’accumulazione di procedere per la sua strada, ha preso piede la produzione di “beni immateriali”. Che proprio immateriali non sono, perché per essere prodotti e venduti hanno bisogno di pesanti supporti materiali, spesso rinvenuti direttamente nel patrimonio offerto dal “mondo naturale”, o da una eredità storica, che venivano per lo più considerati, fino a quando la privatizzazione di tutto non se ne è appropriata, “beni comuni”.
Tra le forme di questo accaparramento il turismo, inteso come settore o attività economica, occupa oggi nel mondo il primo posto. Per anni e anni è stato considerato e riproposto dagli ambientalisti meno avveduti come un’alternativa “light”, leggera, all’industria tradizionale e ai suoi pesanti impatti ambientali. Solo da qualche tempo abbiamo cominciato ad accorgerci che il turismo è ormai la maggiore industria del mondo: quella che fa più fatturato, che genera più occupazione, che coinvolge più “consumatori” e, soprattutto, che ha gli impatti ambientali più devastanti. Il motivo del ritardo con cui si è preso atto di questo dato è il carattere diffuso, frammentato e apparentemente decentrato del settore, nonostante che anche qui a reggerne le fila siano per lo più poche centrali finanziarie che ne “orientano” i grandi flussi. Ma è soprattutto il fatto che il turismo “muove” e alimenta la domanda per un grande numero di altri settori “vitali”, apparentemente indipendenti: l’edilizia (alberghi e seconde case), i voli aerei, l’automobile (a cui molti non rinunciano solo per poter “fare le vacanze”), la nautica da diporto, le crociere e connessa cantieristica, il settore delle costruzioni (strade, autostrade, porti e aeroporti – Grandi opere), la pubblicità, e altro ancora.
Ma da tempo anche l’ordinario sfruttamento dei siti turistici (mare, montagna, laghi, monumenti storici, città d’arte, luoghi di particolare valore paesaggistico o naturalistico) non basta più. La loro capacità di carico è stata superata, avviandone il deterioramento; per ravvivarli come attrattori è necessario attivare degli stimoli, che per lo più vengono individuati nell’organizzazione di un grande evento.
Le politiche di supporto allo sviluppo – cioè alla “crescita”, cioè all’accumulazione del capitale – sono sempre di più affidate alle ricadute, vere o presunte, di un grande evento: un’esposizione universale, o un summit politico o diplomatico che “muove decine di migliaia di persone, per ospitare le quali si apprestano attrezzature sceniche che costano miliardi. Esemplare, in Italia, il caso del G8 dell’allora capo della Protezione civile Bertolaso, localizzato prima alla Maddalena e poi all’Aquila, duplicando tanti grandi impianti “a perdere”. Il grande evento può essere anche un grande concerto, o un evento sportivo. Sintomatico, da questo punto di vista, il fatto che l’economia ormai stagnante del Giappone stesse cercando nelle Olimpiadi del 2020 l’occasione di quel rilancio che la sua industria manufatturiera non è più in grado di assicurargli e che la pandemia di covid19 ha per ora rimandato o forse stroncato.
E infatti, nel vasto settore dei “Grandi eventi”, quelli sportivi –formula 1, motociclismo, vela, o campionati degli sport più seguiti: calcio, tennis, nuoto, sci, atletica leggera – con il loro circo ambulante di atleti, allenatori, organizzatori, sponsor, giornalisti, tifosi, ma anche macchine, barche e attrezzature varie, con relativi addetti – occupano un posto privilegiato. E tra questi alle Olimpiadi spetta indubbiamente un primato perché coinvolgono tutti gli Stati del mondo e perché si svolgono solo ogni quattro anni (ma quelle invernali le hanno moltiplicate per due, e le Paraolimpiadi, riservate ad atleti con disabilità, per quattro).
E tra queste molteplici Olimpiadi, quelle invernali, in programma in Italia per il 2026, ci permettono di osservare da vicino questa vera e propria “matriosca”, in cui ogni singolo evento si incastra entro un orizzonte più ampio, fino a raggiungere l’arcano degli arcani. A farci capire cioè che cosa intendono gli uomini che ci governano, dalle istituzioni dello Stato come dai consigli di amministrazione di imprese, grandi gruppi e banche, per “crescita”: la regola fondamentale del sistema economico che ci impongono.
Proviamo a ricordare la scomposta manifestazione di tronfia esultanza di alcuni esponenti di questo mondo, nella fattispecie, il sindaco di Milano Sala e i governatori della Lombardia e del Veneto, Fontana e Zaia, all’annuncio di aver “vinto” – perché sostanzialmente senza concorrenti, visto che tutti gli altri candidati, tranne uno, si erano prudentemente sfilati dalla gara – l’assegnazione a Milano e Cortina delle suddette Olimpiadi. Una vittoria celebrata da tutti i grandi media italiani, giornali e TV, nonché da un immenso cartello luminoso acceso al centro di Milano.
Per contestualizzare questa stupida vittoria va ricordato che pochi giorni prima, esattamente un anno fa, il Consiglio Comunale di Milano, con la benedizione del sindaco Sala, ma per iniziativa del movimento Fridays for Future, aveva approvato una pubblica dichiarazione di emergenza climatica e ambientale (DECA). Il che, tradotto in linguaggio comprensibile, significa che mancavano – mancano – solo pochi anni, circa 10, al momento in cui, senza drastici interventi di contenimento, sarebbero diventati irreversibili i devastanti cambiamenti climatici in corso. Cambiamenti che tutti avevamo già avuto modo di osservare nelle molte manifestazioni di fenomeni metereologici estremi che avevano colpito sia l’Italia che il resto del mondo, e che nei mesi seguenti si sarebbero susseguiti, fino a rinchiuderci tutti nelle nostre case per cercare di sventare la diffusione di una pandemia che è anch’essa un prodotto della crisi ambientale.
Bene, cioè male. Non c’è probabilmente manifestazione di insipienza, ma anche di irresponsabilità, maggiore di questa: lanciarsi in un’avventura dal pesante impatto ambientale, che si svolgerà tutta su neve prodotta artificialmente, dato che la crisi climatica non fornisce più neve naturale in quantità sufficiente a fare delle gare (e ne fornirà sempre meno), invece di dedicare tutte le energie e le risorse finanziarie, intellettuali e umane disponibili (e per ora sarebbero ancora tante!) a mettere in campo soluzioni per far fronte ai disastri che quella dichiarazione di emergenza climatica e ambientale non fa che annunciare.
Ma le Olimpiadi, come aveva candidamente dichiarato pochi giorni dopo il Presidente del CONI, sono solo un’occasione per costruire a più non posso – a beneficio di chi lo fa, ma soprattutto di un’organizzazione mondiale dei giochi olimpici completamente privatizzata e in mano a un manipolo di gangster – edifici e impianti “a perdere”: cioè da demolire o abbandonare subito dopo, o da “manutenere” a spese delle casse cittadine senza poterli utilizzare, come avevano ampiamente dimostrato le Olimpiadi invernali di Torino del 2006. Ma quell’entusiasmo beota avrebbe poi trovato una puntuale conferma, pochi mesi dopo, quando a scoppio della pandemia covid-19 ormai accertato, il sindaco di Milano, insieme a quello di Bergamo, due delle città più seriamente colpite dal virus e dai decessi di medici, infermieri e pazienti, hanno voluto farsi vedere da tutti i loro concittadini mentre li invitavano, aperitivo alla mano, a continuare sulla strada che avevano tracciato: “Milano non si ferma” aveva detto uno. “Bergamo is running”, Bergamo corre, gli aveva fatto eco l’altro. Verso dove? Verso il disastro.
Un disastro che sindaci e governatori si stanno adoperando in ogni modo per accelerare, così come il governo centrale – che in piena esplosione della pandemia è riuscito a stanziare un miliardo di euro per finanziare un “evento” così devastante. Che forse non si terrà mai, perché i danni prodotti dalla crisi climatica di qui al 2026 rischiano di avere il sopravvento, come già il covid-19 ha imposto il rinvio (a quando?) delle Olimpiadi in Giappone.
E non va certo a loro discolpa il fatto che tutto l’establishment mondiale si sia comportato finora – e probabilmente intenda continuare a comportarsi – in modo non dissimile. Non hanno altro per la testa e questo è il segno maggiore che se vogliamo sottrarci a una catastrofe che mette in forse la sopravvivenza della specie umana sulla Terra dobbiamo licenziare in massa questi nostri governanti. A sostituirli devono essere le nuove generazioni, quelle a cui la crisi climatica e ambientale sta letteralmente rubando il futuro e soprattutto i rappresentanti di questa loro consapevolezza, che ritroviamo nel movimento Fridays for Future e nel suo simbolo, incarnato da Greta Thumberg.
Quanto sia andato avanti il degrado della montagna che dovrebbe fare da teatro delle Olimpiadi del 2026 ce lo mostra una rapida osservazione di uno dei personaggi che hanno avuto l’occasione di assistere a quelle svoltesi nello stesso luogo settant’anni prima, già allora contro il sentire e l’opinione dei cittadini di Cortina d’Ampezzo: “Quando le Olimpiadi Invernali si svolsero a Cortina eravamo nel 1956. Nel 2026 le Olimpiadi Invernali a Cortina si svolgerebbero esattamente settant’anni dopo, con “costi ambientali” e “costi economici” che sono diventati insostenibili: più gare, più atleti, più discipline, più impianti grandi e impattanti, più traffico, più infrastrutture, più consumo di suolo e cementificazione, più spettatori, più caos, più inquinamento. E’ imbarazzante l’esultanza multipartitica dei politici che in Italia fanno parte del “consociativo” Partito Trasversale del Cemento, specie se la confrontiamo con il “no alle Olimpiadi” espresso con un referendum dalla popolazione di Calgary (Canada), dalla popolazione di Innsbruck (Austria), dalla popolazione di Sion (Svizzera ) o con le esitazioni del governo svedese e della Stiria (Austria) che hanno finito per favorire l’unica candidatura rimasta, quella di Cortina. Nel 1956 Cortina e la Valle del Boite erano zone lussureggianti, ricoperte di boschi, attraversate da acque limpide e lente. Cortina e i paesi della Val Boite erano popolati e accerchiati da tanto verde e da tanto paesaggio. Quando si svolsero i giochi olimpici c’era la ferrovia delle Dolomiti che da Calalzo conduceva a Cortina, con una mobilità lenta che univa i paesi e offriva al viaggiatore panorami mozzafiato. Oggi tutto il comprensorio, dopo settant’anni di un processo “antropico” e “urbanistico” avvenuto all’insegna della “cementificazione selvaggia” e della “rendita immobiliare”, è perennemente a rischio “ambientale” e “demografico”.
“Rischio ambientale”, di natura idrogeologica, perché le colate di fango e detriti ad ogni acquazzone si ripetono nei centri abitati della valle. “Rischio demografico” perché il modello consumistico della vacanza come “status symbol” ha privilegiato Cortina, provocando un lento abbandono dei paesi considerati minori, ritenuti dal turismo d’élite ostacoli da superare rapidamente per raggiungere la meta paradisiaca e mondana della Perla delle Dolomiti.
Questo articolo è uno dei contributi a un libro collettivo che uscirà il prossimo luglio per i tipi dell’editore Mimesis, a cura di Silvio La Corte, con il titolo “Io non gioco più”.