Il caso di Silvia Romano e del suo ritorno in Italia va considerato al fuori di ogni visione di parte, qualunque sia la parte, senza mai scordare la protezione delle vittime.
Quando hanno liberato Silvia Romano ho provato un sussulto di gioia, un senso materno di protezione verso la figlia liberata dalla prigionia: non c’è bisogno di essere madri per sperimentare la gioia della maternità. Poi ho ascoltato i vari punti di vista e come sempre su ogni fatto entrano in scena le fazioni, quei Guelfi e Ghibellini di medioevale memoria sembrano non abbandonare mai la nostre relazioni pubbliche. In questo modo senza dialogo e con prese di posizione rigide tutto si deteriora. Ho osservato i fatti e mi sono presa qualche giorno per pensare, sono perfino passata davanti casa sua in via Casoretto, via milanese diventata ormai celebre, ed ho visto con i miei occhi assembramenti di fotografi e cineoperatori pronti a riprendere e a fotografare la giovane appena fosse giunta a destinazione. Attesa come una star di Hollywood, ho pensato, una situazione difficile da gestire anche per una diva figuriamoci per una giovane cooperante abituata a lavorare con i bambini in un villaggio sperduto dell’Africa. Ed a questo punto, associando maternità a protezione, ho capito tutto ciò che mi procurava da qualche ora un senso di dolore, di indignazione… Come si è potuto dare in pasto ai media affamati di notizie scandalistiche una giovane ragazza resa vulnerabile dal lungo rapimento?
Nel frattempo Silvia aveva già dichiarato di essersi convertita all’Islam e insulti, invettive e minacce contro di lei erano già partite insieme alle definizioni colte dei soliti saccenti esperti in materia. Sindrome di Stoccolma, identificazione con l’aggressore per citare le più alte fino a presumere violenza carnale, stato di gravidanza e chi ne ha più ne citi. Le due fazioni, chi difende la sua scelta senza sapere se di scelta si tratti perché la scelta è sempre libera se però non hai la pistola puntata alla tempia, e chi maschilista e misogino la ritiene anche una terrorista. Fosse stato un uomo al suo posto nulla di ciò sarebbe accaduto mentre contro una donna c’è più margine per scagliarsi con violenza come avvoltoi affamati di sangue fresco.
Un grave errore è stato commesso, conoscendo la misoginia dilagante si doveva maternamente proteggere la giovane Silvia. Come? Magari impedendole di dichiarare la conversione che ha messo in moto il reality show a cui abbiamo assistito. Le vittime si proteggono con amore, il tempo delle dichiarazioni sarebbe giunto in un clima più tollerante perché libero da sete di notizia e lei stessa avrebbe avuto lo spazio interiore per ponderare e riflettere sulla propria scelta: per ritornare sui suoi passi o rimanere islamica in piena libertà della mente. “Ognuno è suo”, citazione che ho preso dal filosofo e amico Max Bonfanti, è ciò che non dobbiamo mai scordare di fronte ad ogni difficile situazione dell’individuo.