Ormai l’attesa è entrata a far parte di quella che definiamo “nuova normalità”. Ci svegliamo aspettando che salga il caffè, alle undici contiamo i minuti fino all’ora di pranzo, e il riposino pomeridiano diventa occasione per sognare un domani diverso, più avventuroso e avvincente. Aspettiamo seduti e aspettiamo in piedi, contribuendo a dare forma a lunghi millepiedi di fronte ai supermercati, cercando di evitare gli sguardi accusatori di coloro che ci fanno notare di esserci avvicinati troppo.
Nell’attesa gli occhi vagano. Si inclinano verso il basso per leggere sul cellulare l’ennesimo articolo sugli effetti disastrosi del coronavirus, per poi alzarsi verso l’alto quando ormai, dopo due ore di fila, ci troviamo con la batteria scarica. Cerchiamo di evitare il contatto visivo, come se anche l’idea di sorridere con gli occhi non venga ritenuta adeguata e ragionevole. E quindi ci guardiamo intorno facendo finta di non essere a disagio, di non essere stufi o stanchi, fingendoci interessati a leggere l’ennesimo cartellone che ci invita ad “essere responsabili e collaborare per appiattire la curva”.
Mai prima d’ora il concetto di responsabilità è stato così inflazionato. Da termine quasi dimenticato, è diventato parola d’ordine, norma non scritta, valore e necessità comune. Città ormai spogliate della loro frenesia, che fino a due mesi fa si alimentavano dell’annullamento del singolo a favore dell’omologazione del gregge, ora diventano banco di prova del nostro senso civico e della nostra forza di volontà. Mancanza di responsabilità che diventa sinonimo di egoismo, comportamento che va punito per ricordare al resto della popolazione che le regole servono ed esistono per essere rispettate.
Ed è la paura dell’altro e l’idea di doverci preservare nei confronti dell’”untore”, che ci porta a pretendere con forza crescente il rispetto di quelle norme sociali che da tempo hanno smesso di finire sulla prima pagina dei giornali. La responsabilità individuale diventa chiave di volta della responsabilità comune: il ruolo del singolo ritrova così la forza e il significato che aveva perso all’interno di un sistema sociale che tende a premiare la crescita e l’accumulo. È curioso come sia proprio questo virus, che sopravvive solo grazie alla sua propagazione tra masse di cittadini impauriti ed accalcati, a sbatterci in faccia l’importanza dell’individuo. Individuo che da oggetto torna ad essere soggetto, agente del cambiamento, problema e allo stesso tempo soluzione di un qualcosa che va ben oltre la virologia.
Una domanda sorge spontanea: ponendo nuovamente l’accento sul singolo e sulla sua necessaria centralità all’interno del nostro intricato sistema relazionale, stiamo implicitamente minando il ruolo della democrazia? O è proprio grazie alla ritrovata consapevolezza dell’essere umano, soprattutto rispetto ai suoi diritti e doveri, che la democrazia può essere rinforzata? Oppure, questo momento storico potrebbe anche essere un’occasione, uno spiraglio per ripensare le norme sociali che regolano le nostre interazioni e a quei dogmi che spesso non sembrano più rispondere ai bisogni del nostro tempo. Questo è un momento per iniziare a porsi nuove domande e darsi risposte giuste, anche se scomode. È un momento per provare, insieme, a trovare una soluzione che vada ben oltre alla mera sopravvivenza.
Spesso, la democrazia sembra funzionare al meglio in piccola comunità, nelle quali il singolo mostra un maggior senso di responsabilità e si sente più motivato a pensare il proprio ambiente come un bene da salvaguardare piuttosto che una risorsa da estinguere. E allora, questo è il momento di riconsiderarci in un’ottica nuova, più critica, responsabile e inclusiva. È il momento di vivere con e per gli altri, costruendo un futuro che non premi chi è riuscito a sopravvivere, ma chi supporta coloro che da soli non ce la fanno. Ripensiamoci come un orto sociale, nel quale collaborare per la sopravvivenza dell’altro diventa necessario per poter estirpare le erbe infestanti.
La natura ci può insegnare molto. La ricerca continua dell’equilibrio, del bilanciamento necessario per la salvaguardia dell’ecosistema, permette non solo la sopravvivenza ma l’esistenza di tutte le specie, anche quelle più fragili.
Forse, è arrivato il momento di vedere l’attesa come un frutto non ancora maturo, un dono che la natura ci offre per darci il tempo di osservare, scoprire e apprendere. Tempo prezioso, che ci indirizza verso il raggiungimento di quell’equilibrio perfetto che permette ad ogni individuo di vivere al massimo delle sue capacità e aspirazioni. È il momento di uscire con il cellulare scarico, di trovare il coraggio di alzare lo sguardo e di far maturare, dentro di noi, tutti quei frutti acerbi che per troppo tempo avevamo dimenticato nella cella frigorifera.
Illustrazione di Noel Gazzano www.noelgazzano.com