Ha fatto parlare molto di sé in questi giorni Maryan Ismail, 60 anni, antropologa di fede musulmana storica voce della comunità somala presente a Milano.
Parla dal cuore eppur mette molta ragione Maryan intervenendo all’interno della feroce polemica scatenata in Italia sulla giovane cooperante Silvia Romano.
Silvia, 24 anni, da poco rientrata in Italia dopo quasi 18 mesi di prigionia a seguito di un sequestro subito mentre si trovava ad operare in Kenya come volontaria con i bambini. Silvia di cui forse è bene riepilogare le tristi vicende: il rapimento, poi la lunga e preoccupante assenza di notizie che la davano anche per morta, poi una flebile speranza, la sua possibile presenza in Somalia segnalata dai servizi di Intelligence, data come prigioniera in mano ad un gruppo Jihadista somalo estremista, nato intorno al 2006 e chiamato Al Shabab.
Il gruppo terrorista ha alle sue spalle una serie molto lunga di attentati compiuti spesso anche contro la propria popolazione inerme. Come conseguenza del loro operato si contano già svariate centinaia di morti massacrati fra i civili. Obiettivi principali del gruppo sono da una parte l’istituzione della regola della sharia come legge dello Stato somalo, dall’altra la cacciata dei soldati stranieri dalla Somalia, soprattutto le forze etiopi alleate del governo, ma anche la forza internazionale di pace AMISOM, e il rovesciamento del Governo Federale di Transizione (GFT).
Maryan Ismail è intervenuta in questi giorni sulla vicenda di Silvia Romano a chiarimento di alcuni importanti aspetti, spiegando che questo gruppo terrorista non rappresenta nel modo più assoluto né la cultura somala, né tanto meno l’Islam, ma che al contrario, la stessa popolazione somala è vittima e bersaglio di morte e sofferenza da parte del gruppo jihadista che ha tenuto ostaggio Silvia per quasi un anno e mezzo:
“È giusto pagare un riscatto per salvare una vita. Ho pianto di gioia quando ho saputo della liberazione di Silvia, perché sapevo a chi era in mano. Mio fratello è stato ucciso cinque anni fa in un attentato, proprio da loro. – Riferendosi al gruppo di Al Shabab – Ma oggi sbaglia chi sminuisce e sorvola sui simboli che il gruppo terroristico ha messo sul corpo di questa ragazza. Facendola scendere dall’aereo vestita con quell’abito che non appartiene alla tradizione somala, e con il colore verde dell’Islam è come se dicessero: “Ve la ridiamo convertita e nel modo esatto in cui vogliamo”. Ma l’Islam che predicano loro, politico e violento, non è Islam. È una bestemmia. Il messaggio che passa è che il loro Islam è vincente, perché ha fatto venire a patti un paese europeo: nel mondo jihadista la ricaduta sarà importante e pericolosa”. – L’antropologa somala chiarisce ulteriormente – “La sua, – riferendosi alla conversione di Silvia – non è una scelta di libertà, non può esserlo stata in quella situazione. Scegliere una fede è un percorso così intimo è bello, con una sua sacralità intangibile.”
Sul profilo fb di Maryan da mesi campeggia nella sua copertina la foto di Silvia Romano sorridente, come a sperare che Silvia presto potesse tornare. Accanto una frase di augurio scritta in tempi non sospetti: “Non perdiamo la speranza di rivederla a casa con la sua famiglia e nella sua città. Forza Silvia!”
Leggendo la lettera rivolta a Silvia Romano, Maryan parla al cuore oltre che alle testa sia di Silvia che delle persone:
“Quando si parla del jihadismo islamista somalo mi si riaprono ferite profonde che da sempre cerco di rendere una cicatrice positiva. L’aver perso mio fratello in un attentato e sapere quanto è stata crudele e disumana la sua agonia durata ore in mano agli Al Shabab mi rende ancora furiosa, ma allo stesso tempo calma e decisa.
Perché? Perché noi somali ne conosciamo il modus operandi spietato e soprattutto la parte del cosidetto volto “perbene” . Gente capace di trattare, investire, fare lobbing, presentarsi e vincere qualsiasi tipo di elezione nei loro territori e ovunque nel mondo.
Insomma sappiamo di essere di fronte a avversari pericolosissimi e con mandanti ancor più pericolosi.
Ora la giovane cooperante Silvia Romano, che è bene ricordare NON ha mai scelto di lavorare in Somalia, ma si è trovata suo malgrado in una situazione terribile, è tornata a casa.
Non è un caso che per mesi ho tenuto la foto di Silvia Romano nel mio profilo fb. Sapevo a cosa stava andando incontro.
Si riesce soltanto ad immaginare lo spavento, la paura , l’impotenza, la fragilità e il terrore in cui ci si viene a trovare?
Certamente no, ma bastava leggere i racconti delle sorelle yazide, curde, afgane, somale, irachene, libiche , yemenite per capire il dolore in cui si sprofonda.
Comprendo tutto di Silvia.
Al suo posto mi sarei convertita a qualsiasi cosa pur di resistere, per non morire. Mi sarei immediatamente adeguata a qualsiasi cosa mi avessero proposto, pur di sopravvivere.
E in un nano secondo.
Attraversare la savana dal Kenya e fin quasi alle porte di Mogadiscio in quelle condizioni non è un safari da Club Mediterranee… Nossignore è un incubo infernale, che lascia disturbi post traumatici non indifferenti.
Non mi piacciono per nulla le discussioni sul suo abito (che per cortesia non ha nulla di SOMALO, bensì è una divisa islamista che ci hanno fatto ingoiare a forza), né la felicità per la sua conversione da parte di fazioni islamiche italiane o ideologizzati di varia natura.”
Maryan nella sua lettera piena di amore e comprensione per Silvia ritorna su una domanda che ci pare cruciale e di fondamentale importanza nell’attuale clima asfissiante che si va configurando con toni da moderna crociata e nuova guerra “santa”:
“E poi quale Islam ha conosciuto Silvia? – Si domanda Maryan – Quello pseudo religioso che viene utilizzato per tagliarci la testa. Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello dell’attentato di Mogadiscio che ha provocato 600 morti innocenti? Quello che violenta le nostre donne e bambine? Che obbliga i giovani ad arruolarsi con i jihadisti? Quello che ha provocato a Garissa 148 morti di giovani studenti kenioti solo perché cristiani? Quello che provoca da anni esodi di un’intera generazione che preferisce morire nel deserto, nelle carceri libiche o nel Mediterraneo pur di sfuggire a quell’orrore? Quello che ha decimato politici, intellettuali, dirigenti, diplomatici e giornalisti?
No non è Islam questa cosa.
E’ NAZI FASCISMO, adorazione del MALE.
E’ puro abominio.
E’ bestemmia verso Allah e tutte le vittime.
I simboli, soprattutto quelle sul corpo delle donne hanno un grande valore. E quella tenda verde NON ci rappresenta.”
Maryan parlando a Silvia coglie anche occasione per raccontarci un po’ della sua bellissima e millenaria cultura:
“Quando e se sarà possibile, se la giovane Silvia vorrà, mi piacerebbe raccontarle la cultura della mia Somalia. La nostra preziosa cultura matriarcale, fatta di colori, profumi, suoni, canti, cibo, fogge, monili e abiti.
Le nostre vesti e gioielli si chiamano guntino, dirac, shash, garbasar, gareys, Kuul, faranti, dheego,macawis, kooffi.
I nostri profumi si chiamano cuud, catar e persino barfuum (che deriva dall’italiano).
Ho l’armadio pieno delle stoffe, collane e profumi della mia mamma. Alcuni di essi sono il mio corredo nuziale che lei volle portarsi dietro durante la nostra fuga dalla Somalia.
Adoriamo i colori della terra e del cielo.
Abbiamo una lingua madre pieni di suoni dolci , di poesie, di ninne nanne, di amore verso i bimbi, le madri, i nostri uomini e i nonni.
Abbiamo anche parti terribili come l’infibulazione (che non è mai religiosa, ma tradizionale) , ma le racconterei come siamo state capaci di fermare un rito disumano.
Come e perché abbiamo deciso di non toccare le nostre figlie, senza aiuti, fondi e campagne di sostegno.
Ma soprattutto le racconterei di come siamo stati, prima della devastazione che abbiamo subito, mussulmani sufi e pacifici, mostrandole il Corano di mio padre scritto in arabo e tradotto in somalo..
Di quanti Imam e Donne Sapienti ci hanno guidato.
Della fierezza e gentilezza del popolo somalo.
Mzaryan ritorna si sofferma infine nella sua lettera sul trattamento riservato a Silvia:
E infine ho trovato immorale e devastante l’esibizione dell’arrivo di Silvia data in pasto all’opinione pubblica senza alcun pudore o filtro.
In Italia nessun politico al tempo del terrorismo avrebbe agito in tal modo nei confronti degli ostaggi liberati dalle Br o da altre sigle del terrore.
Ti abbraccio fortissimo cara Silvia, il mio cuore e la mia cultura sono a tua disposizione…
Dopo che la sua lettera è stata ricondivisa decine di migliaia di volte, Maryan oggi ha aggiunto:
”Ho ricevuto tantissimi messaggi di ringraziamento, forse era la voce somala che mancava. Ho un figlio della stessa età di Silvia. Ho ragionato da madre e ho scritto per mandarle un abbraccio da madre africana, da donna come le donne che non avrà incontrato stando segregata, come la vera cultura del mio paese, martoriato da trent’anni di guerre. Nemmeno i somali entrano nella zona controllata da Al Shabab”.
Maryan, che oggi lavora in un Sert e si occupa del recupero di tossicodipendenti di diverse etnie, ha poi aspramente criticato la gestione del ritorno della cooperante e ancora di più ha criticato l’uso politico e strumentale che è stato fatto di questa ragazza da una certa parte politica, soprattutto le feroci e pretestuose polemiche, le impronunciabili e vergognose offese, fino ad arrivare alle vere e proprie minacce che le sono state mosse su cui Maryan ha detto: “Hanno buttato una ragazza di 24 anni nell’agone mediatico, politico e sociale senza alcun filtro. Le hanno scatenato addosso un’ondata di odio. Ora dovremo essere tutti noi la sua scorta, lo sappiamo bene noi somali, che conosciamo la violenza e il razzismo.
Non c’è nulla di naturale in una situazione così disumana come un rapimento. C’è un versetto del Corano che dice “Non vi è costrizione nella religione”. Il nostro cammino di spiritualità non è l’islam violento dei jihadisti, determinato a conquistare politicamente uno Stato per esprimere i suoi interessi, che non sono quelli di una fede sufita somala, che è pacifica. Una pace che sogno per il mio paese, una ricostruzione che porti rinascita, progresso, serenità soprattutto per le donne. Il futuro a cui stava lavorando mio fratello, ucciso insieme ad altri diplomatici”.
Conclude così Maryan, una donna e una mamma che prima di ogni cosa comprende, non giudica, ma si muove con senso a compassione, con spirito di condivisione sia dei dolori che di possibili gioie. Il suo è un intervento ha del taumaturgico, quasi a voler lenire e curare le ferite di Silvia, di cui lei stessa porta addosso i segni e di cui conosce e comprende il significato per esperienza provata. Si tratta della voce di una persona che conosce, che ha elementi e per questo comprende, e in conseguenza ricuce, accoglie e che non aggiunge dolore e ingiustizia ad altre sofferenze ed ingiustizie già presenti. Un brava! grande e un ringraziamento di cuore a Maryan Ismail per il suo intervento, sperando che almeno in parte i suoi ragionamenti e la sua testimonianza possano almeno in parte ricucire i profondi strappi culturali che ormai attraversano da tempo il nostro Paese. Ci auguriamo inoltre che persone come Maryan possano sempre più moltiplicarsi nel contesto culturale del nostro Paese, per certi versi ormai asfittico e tristemente avvitato su stesso. Invitando in questo sia i lettori che altri organi d’informazione e stampa, le associazioni, il paziente lavoro operato dal volontariato, l’attivismo in generale, a dare sempre più risalto e spazio a voci come quella di Maryan, di modo da poter relegare sempre più in un angolo odio, razzismo, islamofobia, linguaggio e atteggiamenti violenti, e mettere in luce e dare forza invece alla cooperazione, all’aiuto, alla solidarietà, alla condivisione degli elementi comuni fra i popoli, all’interno d’un cammino comune di lotta di liberazione dal dolore e dalla sofferenza, e dall’oppressione dell’essere umano che non ha colori, né bandiera, né religione, ma è universale.