Da alcuni giorni sono riprese le proteste contro la crisi economica e il carovita in Libano. Questa volta la principale protagonista è soprattutto Tripoli, seconda città del paese e uno dei centri urbani più poveri del Medio Oriente. In seguito all’uccisione di Fawas Fouad al-Samman per mano dell’esercito il 27 aprile, lo scorso fine settimana manifestanti provenienti da tutto il paese si sono riuniti per protestare, nonostante la minaccia del virus, agitando le foto del ventiseienne ucciso. A Tripoli dove gran parte della popolazione già prima della crisi del Coronavirus era sotto la soglia della povertà, e molti vivono di lavori precari e alla giornata, il lockdown imposto dal governo per far fronte all’emergenza ha peggiorato la situazione e in poco tempo molti hanno perso le loro fonti di reddito. La paura della fame, più forte di quella del virus, ha fatto sì che restare a casa fosse un privilegio che in molti non potevano permettersi.
Una crisi economica devastante
Da circa otto mesi, il Libano sta affrontando la peggiore crisi economica che il paese abbia conosciuto da decenni, che si è aggravata con il rallentamento degli afflussi di capitali dovuto all’instabilità politica e con lo scoppio delle proteste di ottobre contro l’élite al potere e il sistema settario. Il valore della moneta locale è caduto a picco e il dollaro, che ormai si trova solo sul mercato nero, è scambiato a circa 4.000LL mentre il tasso di cambio ufficiale è di 1.500LL. In marzo, lo stato, fortemente indebitato, ha dichiarato il default, mentre inflazione e disoccupazione sono aumentate in maniera vertiginosa. I prezzi di molti beni di prima necessità sono aumentati di circa il 60 per cento e molte famiglie hanno iniziato a rivolgersi alla società civile. Con la totale assenza dello stato, le associazioni e le organizzazioni umanitarie stanno provvedendo al sostentamento di molti, soprattutto nelle zone più povere del paese. Da settimane inoltre molte famiglie si rivolgono ai parenti all’estero per ricevere rimesse attraverso le agenzie di trasferimento di denaro.
Come sta cambiando la rivoluzione
Il lockdown imposto dal governo per far fronte all’emergenza Coronavirus e il tentativo di un ritorno alle vecchie abitudini da parte di politici indifferenti, non sono bastati a fermare la rivoluzione e i manifestanti sono tornati in piazza in varie città del Libano. Tuttavia, in questa seconda fase a mobilitarsi sono stati i centri urbani più poveri come Tripoli, Sidone e alcune località della Beqaa, dove centinaia di manifestanti hanno preso di mira le banche con Molotov, esplosivi e pietre. L’esercito ha risposto con proiettili veri e gas lacrimogeni sui manifestanti, facendo decine di feriti e un morto. In un paese in cui la libertà di manifestare è ancora un diritto, questa svolta violenta dell’esercito e il suo cambio di atteggiamento dopo che in una prima fase aveva mostrato una certa solidarietà con i manifestanti, è visto da alcuni come un tentativo di arginare le derive violente delle proteste (da alcuni anni si parla di una nuova corsa agli armamenti dei partiti libanesi) per evitare la divisione settaria di una rivoluzione che nella sua prima fase aveva dimostrato una natura unitaria, apartitica e laica. Tuttavia, altri vedono in questo atteggiamento la volontà di mantenere lo status quo, permettendo così alla classe politica di tenersi stretti i propri privilegi. L’esercito libanese, considerato da molti come una delle poche istituzioni non settarie del paese, non può rimanere immune dalle critiche. Già nella prima fase della rivoluzione, in molti lo hanno criticato per non essere intervenuto quando i manifestanti sono stati attaccati nelle piazze dai sostenitori di Hezbollah e Amal.
“Solo l’apparenza di un paese democratico”
Sono in molti oggi a Tripoli e in tutto il Libano a interrogarsi sul futuro delle proteste e sulla reale possibilità che la rivoluzione riesca a mantenere un carattere pacifico. Questa difficoltà di inquadrare gli eventi in un possibile scenario futuro ha portato anche a critiche da parte delle classi medie verso chi sta manifestando oggi a Tripoli e in altre città, a causa della svolta violenta delle proteste. A Tripoli però molti manifestanti non credono più che una protesta pacifica possa cambiare davvero le cose in un Libano che, dalle parole di un manifestante raggiunto al telefono, “è solo in apparenza un paese democratico”. Chi protesta, infatti, ritiene che il benessere dei cittadini libanesi non stia a cuore alla classe dirigente quanto lo siano i propri profitti personali. Ad esempio, in aprile, il governo aveva approvato lo stanziamento di 400.000LL (circa 150$) a sostegno delle famiglie più povere durante il lockdown, ma le riforme supplementari di assistenza sociale che erano state proposte non sono mai state approvate dal Parlamento. Al momento del voto, molte tensioni e scontri verbali hanno animato l’aula, risultando nello scioglimento dell’assemblea, mentre la proposta è rimasta carta morta. Al contrario di quanto accaduto per la legge sulla legalizzazione della cannabis, su cui i politici al potere hanno interessi diretti, il palazzo non sembra nutrire alcun interesse per le richieste della piazza. I politici continuano a fare leva sulle divisioni, incolpandosi a vicenda e allo stesso tempo spalleggiandosi l’un l’altro per mantenere i propri privilegi. Nello stesso quadro rientrano le cospirazioni spesso messe in atto dai politici stessi, che per anni hanno colpevolizzano attori esterni (dal nemico numero uno, Israele, agli interessi dell’Occidente, o le armi di Hezbollah) oscurando le reali ragioni della mancanza di servizi essenziali, come ad esempio l’energia elettrica, e dell’impoverimento del paese. In questo modo, evitano anche di assumersi le responsabilità di una crisi politica che è il vero motore della crisi economica.
L’incertezza del futuro
Il merito di questa sollevazione è quello di portare sotto gli occhi di tutti i problemi strutturali del paese, ignorati o sottovalutati per decenni. Il Libano oggi è a un punto di rottura e le conseguenze potrebbero essere peggiori di quelle dei quindici anni di guerra civile. Tuttavia, per i manifestanti a Tripoli non c’è via d’uscita indolore da questa crisi. Nella percezione di chi scende in piazza oggi, cadere a picco sarebbe l’unico modo per smantellare il sistema corrotto e settario che governa il Libano, che ha anche ostacolato una reale pacificazione del paese alimentando invece l’alternanza di diverse narrative divisorie.
Se nella prima fase della rivoluzione i manifestanti chiedevano al governo di dimettersi, sotto lo slogan di killon ya3ni killon (“tutti significa tutti”), sembra che ora in molti abbiano perso la speranza che un qualunque governo potrà mai avere autorità politica su un establishment che mantiene il controllo in maniera così ostinata spartendosi il paese. I manifestanti oggi sanno che la classe dirigente non ha alcuna intenzione di perdere il proprio potere, perché, secondo un manifestante intervistato, “se cade un pezzo del sistema cadranno tutti gli altri pezzi”. Sebbene oggi non si stagli all’orizzonte una nuova guerra civile nel futuro del Libano tutte le strade sono in salita, perché “un conto è combattere contro un dittatore, ma quando i dittatori sono quindici non è più così semplice”.
Articolo originale https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/libano-adesso-la-crisi-si-fa-seria-26031