Il 16 dicembre 1987 si conclude in primo grado il maxi processo contro Cosa Nostra: 360 condanne per un totale di 2665 anni di carcere. La mafia non è invincibile, i clan si possono sconfiggere nelle aule di tribunale e in nome della giustizia. Una grande vittoria della procura antimafia di Palermo di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonio Ingroia e altri magistrati in prima linea contro le mafie. Poteva, anzi doveva ma nel paese sporco (parafrasando Pasolini) e dei gattopardi il dovere non esiste, essere la svolta definitiva contro i poteri marci. Fu invece, in buona parte, l’inizio della fine di quella straordinaria stagione civile e morale. Antonino Caponnetto, per motivi di salute, poco dopo tornò a Firenze. Aveva avuto ampie rassicurazioni che il lavoro del pool antimafia sarebbe potuto proseguire senza problemi e che al suo posto sarebbe stato designato Falcone. Ma così non fu: il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura designò, cancellando ogni riferimento e basandosi esclusivamente su un criterio di anzianità, Antonino Mieli. Falcone, come molti ebbero a dire, iniziò a morire quel giorno abbandonato e tradito anche da alcuni che considerava amici. Una scelta, che oggi molti considerano sbagliata ma ipocritamente perché si lasciano manovrare dagli stessi fili, figlia del clima montante che era nata dopo il polverone contro coloro che furono definiti “professionisti dell’antimafia”. Una frase che, nell’Italia dove Falcone e Borsellino vengono sbandierati e resi santini ad ogni piè sospinto, ancora oggi anima troppi mossi da ottusi interessi ideologici o molto più di partito, bottega o padrone. Quel clima contro i magistrati di Palermo travolse anche il fallito attentato dell’Addaura che alcuni, senza nessuna vergogna, dissero fosse una manovra dello stesso Falcone per fare carriera.
“Era l’estate del 1988 – ha ricordato di recente all’Adn Kronos Antonio Ingroia(http://www.lagiustizia.info/ingroia-di-matteo-come-borsellino-nell88-dopo-morte-giudici-non-e-cambiato-nulla/ ), oggi avvocato antimafia e presidente del movimento politico Azione Civile – Paolo Borsellino procuratore a Marsala sa che Falcone è prigioniero del modo burocratico in cui si fa lotta alla mafia a Palermo da quando Antonino Meli è stato preferito allo stesso Falcone come capo dell’ufficio istruzione e quindi del pool antimafia. Incontra due giornalisti e denuncia il calo di tensione nella lotta alla mafia da parte dello Stato. Scoppia un putiferio. Ma è Borsellino che viene accusato per avere fatto la denuncia in una sede non istituzionale, e rischia il procedimento disciplinare, mentre Meli rimane al suo posto e tutto finisce in una bolla di sapone. Oggi Nino Di Matteo non viene forse accusato della stessa accusa, per essere intervenuto in una trasmissione televisiva invece che nelle sedi istituzionali perdendo di vista il vero tema cioè, il calo nella lotta alla mafia con la scarcerazione di quasi 400 mafiosi a causa di una circolare uscita dal Dipartimento ministeriale dove è stato scelto qualcuno meno titolato di lui? Di Matteo accusato di avere usato sedi improprie e il Ministro che lo ha scartato rimane al suo posto. È cambiato qualcosa a quasi 30 anni dal sacrificio di Borsellino e Falcone? Molto amaramente dobbiamo ammettere di no”. Un riassunto di tanti fatti anche di queste settimane a cui c’è ben poco da aggiungere. Basta scorrere le pagine dei quotidiani, scorrere i social o vedere i personaggi più improbabili e senza alcuna autorevolezza per rendersi conto che in questo paese è sempre più egemone – come già ricordato in un precedente articolo – l’idea che tutti possono esprimersi (traditori dello Stato, avvocati di mafiosi, starlette dallo spessore inferiore allo zero e tante altre espressioni della vacuità borghese e mal affaristica) ma non chi in prima linea ogni giorno rischia la vita per la giustizia e la libertà dalle oppressioni criminali. L’avvento di Mieli portò con sé un duro colpo all’avanzata del lavoro antimafia a Palermo tornando indietro alla concezione delle mafie come pure bande che violavano qualche legge, senza nessuna subcultura, alti interessi e progetti strategici. Di fatto la tesi che troppi portano avanti ancora oggi cercando di isolare e delegittimare ogni espressione di magistrati come Gratteri, Di Matteo e Maresca o ex magistrati come Ingroia e Caselli. Perché ci sono quotidiani che ogni santo giorno di fatto portano avanti le peggiori balle contro di loro e una vera e propria campagna offensiva e mistificatoria. Portata avanti da personaggi capaci di essere tra i maggiori saltimbanchi della politica passando dall’estrema sinistra a Forza Italia e altri che hanno più di un armadio pieno di scheletri, vissuti da sempre all’ombra di padroni che dettano la linea. Eppure sono considerati interlocutori, ascoltati al contrario di chi oggi cerca di portare avanti la lotta alla borghesia mafiosa, capitalista e criminale. E dovrebbe far riflettere che in queste settimane l’unico quotidiano su cui – grazie all’intervista ad Antonio Nicaso, autore con Nicola Gratteri di tanti libri contro la ‘ndrangheta – le mafie sono state definite e descritte nella loro essenza capitalista, affaristica, negli intrecci con politica, economia, massoneria e zone grigie della società sia stato l’Osservatore Romano. Mentre altrove si sono scatenate le canee più sconcertanti a difesa della possibilità dei mafiosi più pericolosi di tornare nei luoghi dove hanno comandato e agito. Dimenticandosi di una delle grandi lezioni della stagione antimafia del pool e dei migliori e più coraggiosi giudici, giornalisti e militanti contro le mafie. Ma sbandierare il santino di Peppino Impastato, riempire bocche e tastiere con “la mafia è una montagna di merda”, fa sentire fregni e bravi. Chiamare per nome i Tano Badalamenti di oggi, combattere contro pupi e pupari potenti e/o che puoi incontrare al bar ogni giorno è più difficile, chiedere coraggio e schiena dritta, autenticità dell’animo ma – come scrisse anche Manzoni – non è da tutti. E incredibilmente lo stesso presunto finto garantismo non ha dedicato neanche un decimo del tempo a interrogarsi sulle dinamiche strutturali che hanno portato le carceri allo stato attuale e sul perché altri detenuti, che non hanno santi in paradiso e non sono stati protagonisti della peggiore oppressione criminale possibile, non hanno beneficiato di nulla per l’assenza dei braccialetti elettronici. Ma chi non è colletto bianco, chi non è potente, chi viene da classi meno abbienti a quanto pare non interessa …
Siamo nell’Italia che in queste ore (fa finta di) celebra(re) Falcone come tra qualche settimana Borsellino ma cresce la spinta per cancellare ogni presidio di controllo degli affari delle mafie, di ogni mafia, come il codice appalti e ogni altro vincolo. In cui una dei personaggi improbabili e senza nessuna credibilità già citati è arrivata a scrivere non solo che la mafia non esiste più ma, addirittura, che se pure esistesse ancora non è un gran pericolo, non uccide più e quindi non bisogna considerare la lotta contro di essa una priorità. Parole scritte dal sofà di casa propria mentre, anche in queste settimane di lockdown, c’è chi è stato assassinato da tumori e altre malattie perché la sua terra è stata avvelenata dalla camorra, c’è chi ha subito intimidazioni, chi ha subito abusi e violenze per colpa dello spaccio di droga, ci sono donne che sono rimaste incatenate alla schiavitù sessuale per i porci comodi dei bravi borghesi. Di trattative e di cedimenti davanti alle peggiori e più squallide consorterie criminali la storia italiana è ahinoi piena. Ma ricordarlo può portare a subire gli insulti e le contumelie peggiori. A fine aprile è stato l’anniversario della morte di Roberto Mancini (https://www.pressenza.com/it/2019/05/condannato-cipriano-chianese-per-la-discarica-su-cui-indago-roberto-mancini/ ), il poliziotto che scoprì la terra dei fuochi. Oggi è totalmente dimenticato, tranne per qualche “santino social” il giorno della sua morte mentre uno dei protagonisti della stagione del cedimento alla camorra di inizio anni duemila è salito sempre più al vertice della nazione (parafrasando Pippo Fava). Lo ha denunciato, quasi in solitaria, oltre un mese fa Nello Trocchia, coraggioso giornalista campano autore in questi anni di tante documentate inchieste contro le mafie, il malaffare e la malapolitica. L’unico movimento politico che ha preso posizione duramente a livello nazionale dopo la sua denuncia è stato Azione Civile di Antonio Ingroia. E c’è poco da commentare o aggiungere. “in quei mesi del 2003, quando (tanto per cambiare) si cercavano affannosamente fosse e buchi nei quali depositare i rifiuti che si accumulavano nelle strade napoletane, che gli uomini dello Stato incontrarono la camorra. … scesero a patti con un gruppetto di imprenditori in odor di mafia … Le discariche c’erano, erano piuttosto illegali … Fu in quella giornata – era primavera – del 2003 che il destino di Villa Literno, e delle vicinissime Giugliano e Parete, fu definitivamente segnato” (Rosaria Capacchione, Il Mattino, 2011). “Una lista lunga, quasi interminabile, di santi in paradiso e di segnalati che danno la misura di cosa sia stato effettivamente il Commissariato: un luogo di spartizione, di spesa allegra, un eldorado di spreco e inefficienza” (Nello Trocchia, Tommaso Sodano, La Peste, 2010).