Dopo i ringraziamenti al Sindaco ed al governo italiano per la “disponibilità” offerta con il trasbordo sulla nave hotspot Rubattino, la nave umanitaria Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye è stata sottoposta a fermo amministrativo su provvedimento della Capitaneria di porto di Palermo, probabilmente ispirato dai comandi militari e dai vertici politici romani.
“L’ispezione – hanno spiegato dalla Guardia Costiera – ha evidenziato diverse irregolarità di natura tecnica e operativa tali da compromettere non solo la sicurezza degli equipaggi, ma anche delle persone che sono state e che potrebbero essere recuperate a bordo, nel corso del servizio di assistenza svolto”. Non si comprende come qualificare “servizio di assistenza” l’adempimento degli obblighi di soccorso imposti a carico dei comandanti delle navi in caso di distress (pericolo imminente) dalle Convenzione UNCLOS di Montego Bay e dalla Convenzione SAR di Amburgo. Una argomentazione che non è nuova, risale agli scorsi anni, al periodo in cui Salvini esercitava i “pieni poteri” in materia di sbarchi dal ministero dell’interno, una tesi che porterebbe alla conseguenza che, se l’imbarcazione soccorritrice non avesse i “requisiti tecnici” per trasportare i naufraghi, per non infrangere le leggi della burocrazia marittima, li dovrebbe abbandonare al loro destino in mare, senza intervenire immediatamente, come invece è imposto dalle Convenzioni internazionali.
Una misura amministrativa, quella adottata nei confronti della Alan Kurdi, che produce come conseguenza il fermo a tempo indeterminato di una delle poche navi che ancora operavano attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, mentre si dà spazio e copertura ai pescherecci fantasma maltesi che operano push back verso la Libia. Allo stesso tempo si tengono fermi in porto o al limite delle acque territoriali le imbarcazioni di soccorso veloce della Guardia costiera italiana ed i mezzi della Guardia di finanza, che intervengono solo in assetto Frontex o quando i barconi entrano nelle acque territoriali italiane.
L’espediente burocratico del fermo amministrativo escogitato per bloccare il soccorso umanitario nelle acque internazionali replica dunque una tattica già sperimentata ai tempi delle ordinanze e dei decreti firmati da Salvini, e segna la sconfitta di quanti hanno pensato di potere gestire una linea di basso profilo nella denuncia delle omissioni imputabili all’Italia per il mancato rispetto degli obblighi di ricerca e salvataggio stabiliti dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei.
Non si sa ancora se un’altro provvedimento di fermo amministrativo sarà adottato anche nei confronti della Aita Mari, che, come la Alan Kurdi, è ormeggiata da domenica 3 maggio alla estremità della diga foranea del porto di Palermo. Già nel mese di gennaio dello scorso anno, ai tempi di Salvini ministro dell’interno, un analogo provvedimento era stato adottato nei confronti della Sea Watch 3 nel porto di Catania. In quella occasione la ONG tedesca dichiarava che «le autorità, sotto chiara pressione politica, sono alla ricerca di ogni pretesto tecnico per fermare l’attività di soccorso in mare». Come succede ancora oggi.
Dopo il pesante provvedimento di fermo amministrativo adottato dalla Capitaneria di porto di Palermo si prospettano possibili processi nei confronti dei responsabili della Alan Kurdi, alla quale si contesta di non avere le dotazioni di sicurezza per tutte le persone soccorse. Che forse avrebbero dovuto scomparire in mare senza essere soccorse, visto che la nave di Sea Eye non aveva gli stessi “requisiti tecnici” di una nave da crociera o di un traghetto. Si completa così la progressiva eliminazione delle navi delle ONG dal Mediterraneo centrale. I governi vogliono allontanare ogni possibile testimone degli effetti tragici delle loro politiche di abbandono in alto mare e di respingimento in Libia.
Di certo, mentre Malta fa entrare a La Valletta, e ripartire subito verso sud, un peschereccio ombra che serve a respingere i migranti in Libia, addirittura senza bandiera e segni identificativi, senza neppure rispettare gli obblighi di quarantena, per non parlare di “requisiti tecnici”, è sempre più chiaro l’atteggiamento del governo italiano, che di fatto, insieme a Frontex, collabora con le autorità maltesi nel tracciamento delle imbarcazioni che si avvicinano alle coste di Malta e Lampedusa. E però nega l’indicazione di un porto di sbarco sicuro al mercantile Marina 2, con il suo carico dolente di naufraghi abbandonati da giorni in alto mare, a bordo di una nave inadeguata ad assolvere qualsiasi funzione di soccorso e priva di personale formato per le attività SAR.
Le navi umanitarie sono state costrette ad impegnarsi nel Mediterraneo centrale per la mancanza di mezzi di soccorso degli stati che hanno ritirato le migliori unità delle loro guardie costiere per dedicarsi esclusivamente alle attività di law enforcement (contrasto dell’immigrazione illegale) sotto coordinamento di Frontex, senza peraltro riuscire ad arrestare neppure gli scafisti, e senza naturalmente sconfiggere i trafficanti che gestiscono le partenze dalla Libia, e dalla Tunisia.
Tutti i soccorsi operati dalle ONG nel Mediterraneo centrale sono avvenuti in stato di necessità, per fare fronte agli obblighi di salvataggio dei naufraghi imposti dalle Convenzioni internazionali, lo hanno affermato tribunali e procure italiani, lo conferma la Corte di Cassazione con la sentenza del 20 febbraio 2020 sul caso Rackete.
Se si apriranno adesso nuovi procedimenti amministrativi, e forse anche penali, a seguito del fermo amministrativo adottato nei confronti della Alan Kurdi, sarà l’occasione, finalmente, sia per i responsabili delle ONG, che per i rappresentanti della informazione indipendente e della società civile che vi potranno partecipare, per fare venire fuori i tracciati e le comunicazioni inerenti le attività di soccorso. Vedremo se saranno fatte altre ispezioni mirate e se la medesima misura del fermo amministrativo sarà adottata anche nei confronti della nave umanitaria Aita Mari.
La Aita Mari, adesso ormeggiata a Palermo vicino alla Alan Kurdi, è stata coinvolta in un evento di soccorso nella notte tra il 13 ed il 14 aprile, mentre la nave di Sea Eye attendeva dalle autorità italiane l’indicazione di un POS (Place of safety), costretta a derivare al largo di Trapani. Mentre la Aita Mari vagava in alto mare poco a nord di Lampedusa, senza un porto sicuro di sbarco, nella stessa notte tra il 13 ed il 14 aprile, poco più a sud dell’isola si verificava un respingimento illegale con il coinvolgimento di una grossa nave commerciale, la IVAN, e l’intervento di un finto peschereccio maltese-libico che riportava i naufraghi a Tripoli. In quella stessa notte 12 persone perdevano la vita a 30 miglia a sud di Lampedusa. Se si dovranno accertare le “dotazioni tecniche” delle navi umanitarie e la loro idoneità a compiere attività di ricerca e salvataggio, non si potrà prescindere da una completa ricostruzione degli ultimi eventi SAR nei quali sono intervenute, tutti caratterizzati da un evidente stato di necessità.
Il rappresentante dell”UNHCR per il Mediterraneo centrale Vincent Cochetel ha criticato il ritardo negli interventi di ricerca e soccorso operati a sud di Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile. “Questa barca non avrebbe mai dovuto essere lasciata alla deriva”, ha scritto Vincent Cochetel in un tweet.“La perdita di vite avrebbe potuto essere evitata. Coloro che considerano la Libia un porto sicuro dovrebbero visitare i sopravvissuti nel terribile centro di detenzione in cui si trovano. Nessuno può onestamente ignorare oggi a quale” salvataggio “porta la Guardia costiera libica”.
Sulle navi umanitarie come la Alan Kurdi e la Aita Mari i naufraghi non hanno pagato un biglietto per imbarcarsi, e non sarebbero mai saliti, se ci fossero stati i mezzi di soccorso che gli stati avrebbero avuto il dovere di approntare nel Mediterraneo centrale, coordinandosi tra loro, in osservanza degli obblighi di ricerca e soccorso sanciti dalle Convenzioni internazionali e dai regolamenti europei.
Adesso chi è responsabile di scelte politiche di abbandono in mare e di misure amministrative illegittime, come il provvedimento di chiusura dei porti, che andrammo comunque sottoposte ad una verifica giurisdizionale, dovrà esibire le carte sul tavolo. Vedremo quello che racconteranno i tracciati, i rilievi aerei e le comunicazioni radio.
Alla fine si potrà forse stabilire, anche al di là delle sentenze, su chi ricadono le responsabilità dei ritardi o delle omissioni di soccorso, ben oltre la questione abusata dei “requisiti tecnici” e delle dotazioni di sicurezza nelle vecchie navi che le ONG riescono ancora a mandare nel Mediterraneo centrale, per salvare qualche decina di naufraghi, in una fase in cui comunque si moltiplicano a centinaia gli arrivi indipendenti, i cd. sbarchi autonomi.
In un momento in cui l’odio sociale si alterna all’indifferenza nei confronti dei naufraghi e di chi salva vite in alto mare, qualunque procedimento giudiziario, sia pure in sede amministrativa, sarà occasione di rompere quel muro di silenzio e di complicità che si è alzato attorno ai migranti che cercano di fuggire dalla Libia.
Da mesi si finge, fino all’ultimo, di non vedere, e di non sentire, magari in attesa che arrivi da Malta qualche navetta fantasma per fermare i barconi a sud di Lampedusa, ovvero, da ultimo, si organizzano le attività di ricerca e salvataggio coinvolgendo navi commerciali, come il cargo Marina, del tutto inadeguate ai soccorsi. Navi che hanno forse i “requisiti tecnici”, ma le fiancate alte come muri. I “muri” sull’acqua non esistono, semmai sono state già troppe ed altre potrebbero essercene, le persone che perderanno la vita nel tentativo di arrampicarsi su quei muri e di approdare in un porto sicuro.