L’atmosfera intorno sta cambiando. Due mesi. Sono passati due mesi da quando tutto questo è cominciato. Certo, due mesi di confinamento non sono pochi, hanno messo tutti a dura prova. Ma è un po’ come se, da quando ci è stato descritto l’altra sera il nuovo decreto che ci governerà dal prossimo 4 maggio, si fossero rotti degli argini. Quel decreto che doveva dare il via alle aperture della cosiddetta fase 2 ha suscitato rabbia, insofferenza. Non voglio dire che il decreto sia esente da critiche, per certe sue ridondanze e per molte mancanze, soprattutto per l’impronta economicista che lo caratterizza. Ma qui mi interessa piuttosto soffermarmi sulle reazioni insofferenti che ho sentito montare intorno a me. Come se l’allentamento del timore per l’epidemia, all’avvio della nuova fase, significasse anche allentamento dei comportamenti. E questo spiega, credo, molte reazioni sopra le righe e anche contraddittorie, fra chi protesta contro le “aperture” e chi ne vorrebbe invece molte di più.
Sento gente intorno a me che si scambia espressioni sconsolate del tipo: “Ormai siamo ai domiciliari”. Ai domiciliari noi? Forse il problema dei domiciliari è un altro, e riguarda i capi mafia scarcerati in questi giorni con la scusa del covid19… No, non siamo ai domiciliari. Si perdono le dimensioni reali delle cose. Si chiedeva ieri il vignettista Mauro Biani in un post: che senso ha passare due giorni a discutere della parola “congiunto”, e nello stesso tempo continuare a tollerare la situazione dei braccianti ammassati nei ghetti? Già, il congiunto. Tutti a chiedersi per giorni: ma allora il fidanzato posso andarlo a trovare o no? e perché lui sì e non gli amici? e quanto stabile deve essere il rapporto? Insomma, avrebbero dovuto dirci: andate a trovare chi vi pare. Ma forse per questo la pandemia dovrebbe essere finita. E invece sono in molti a temere che la famosa fase 2 non stia ancora nemmeno cominciando…
Ecco, mi sembra che il problema stia qui: non siamo usciti dall’epidemia, anzi, stiamo solo avviandoci ad entrare in un tempo in cui dovremo convivere con il virus. E questo apre un mondo sconosciuto che ci spaventa. Le immagini di quei treni e autobus mezzi vuoti in cui dovremo salire, di quelle code che ci rallenteranno la vita, di quelle facce mascherate che continueremo a vedere intorno a noi, sguardi incrociati appena, sfuggenti, e poi l’idea di tutto quello cui dovremo ancora rinunciare, senza neanche sapere fino a quando – beh, questo è troppo! E allora ognuno si attacca a qualcosa che gli preme massimamente (il fidanzato, l’amico, lo sport, la seconda casa, e via elencando). Il decreto ha 70 pagine, giustamente Zagrebelski su La Repubblica di oggi lo definisce un’enciclopedia del disciplinamento che scandisce in dettaglio le nostre giornate; eppure in molti non sembrano soddisfatti, ne vorrebbero ancora, e con definizioni ancora più precise.
L’esperienza del virus ci aveva sorpresi, per la sua velocità, per la sua violenza, e soprattutto per quel modo imperioso che ha avuto di costringerci tutti a farci carico della comunità, financo nei comportamenti più quotidiani. Lavatevi le mani, ne va della vostra vita, ma anche di quella di tutti gli altri. In questi due mesi di quarantena, questo lo abbiamo capito bene, e infatti abbiamo largamente obbedito alle regole imposte. Siamo diventati più consapevoli dei nostri limiti e dell’interdipendenza dagli altri. Il virus ci ha accomunati e costretti a pensare a soluzioni “comuni” in nome di un comune destino. Quante volte abbiamo ripetuto che al tempo del virus nessuno può più pensare di salvarsi da solo, né di farlo senza coinvolgere in questo processo la natura. Abbiamo sperimentato qualcosa che avevamo dimenticato: una comunità di specie, legata alla vitalità; siamo stati più “popolazione” che popolo. Abbiamo accettato restrizioni e privazioni, perché si trattava di difenderci tutti assieme dal virus. Siamo diventati persino egualitaristi, prova ne sia la caccia alle streghe che c’è stata contro i runners e altre figure ugualmente “eversive”.
Ora però questo nuovo passaggio non sembra convincerci altrettanto. Non sappiamo come leggerlo: che vuol dire convivere con il virus? O c’è, e allora dobbiamo difenderci e ci devono dire come; oppure non c’è, ma allora dovremmo essere liberi di fare tutto quello che facevamo. Sembra invece che si apra per noi uno stato intermedio, una sorta di zona grigia, in cui continueremo a doverci difendere da un nemico, che si fa però sempre più stilizzato, quasi un’ombra – quell’asintomatico che è adesso il vero untore infido, non più chi tossisce ma chi non fa nulla; e però contemporaneamente dovremo anche prenderci di più il rischio di vivere e di muoverci. Tutto questo sembra disorientarci. E dall’egualitarismo di prima, tornano fuori gli egoismi.
Abbiamo accettato il regime di tutela che ci ha tenuti confinati spazialmente e ci ha disciplinati nei comportamenti (igiene, distanziamento, code, ecc.), regime sempre inevitabile nel controllo di un’epidemia. Abbiamo rispettato le regole, da bravi cittadini. Ma se ora non saremo più sotto tutela, se ci rimettiamo in movimento, e però dobbiamo controllarci, misurarci, trattenerci – beh, questa è tutta un’altra storia. Questi limiti che ognuno deve gestirsi ci paiono più pesanti da accettare. E scalpitiamo, ci sentiamo in gabbia.
Eppure la vera differenza rispetto al modello cinese è tutta qui; è qui che si gioca la possibilità di una gestione democratica della pandemia. Perché è fuori dall’imposizione disciplinare che ognuno mette in atto la propria responsabilità. Non può bastarci, per essere cittadini, l’obbedienza alle regole, in cui pure siamo stati abbastanza bravi; adesso si tratta di metterci in gioco e pensare noi a quali comportamenti tenere in presenza di una epidemia tutt’altro che finita. Ha ragione Zagrebelski: siamo al passaggio dall’obbedienza alla partecipazione responsabile. Sta ad ognuno di noi, nel riprendere a poco a poco la propria vita, interiorizzare prudenza e autocontrollo, ma anche portarsi dentro quel senso rinnovato di comune destino di cui siamo parte, tradurre in atti quella solidarietà fra il sé e gli altri che abbiamo sperimentato; e fare tutto questo quasi liberamente, o comunque con minori costrizioni.
Oppure l’epidemia non ci avrà insegnato nulla.