Abbiamo avuto l’occasione di intervistare l’economista Lea Cassar, titolare della cattedra di Economia Empirica all’Università di Regensburg (Ratisbona) che in queste settimane ha lanciato un appello indirizzato alle nuove generazioni affinchè partendo dall’emergenza Coronavirus traggano spunti di riflessione e ricerchino delle opportunità per innescare un reale cambiamento sociale ed economico capace inoltre di far fronte alla crisi ecologica attuale.
Abbiamo raccolto in un breve video l’appello di Lea Cassar. A seguire la stimolante intervista all’economista
Intervista all’economista Lea Cassar
Spesso sono i momenti di crisi che spingono alla trasformazione personale e sociale. Anche l’emergenza Covid-19 può essere un’opportunità di cambiamento. In questi giorni lei ha stimolato i giovani a coglierla. Qual è la sua proposta?
Io vorrei innanzitutto convincere i giovani che possono, anzi devono, assumere un ruolo di primo piano nello spingere per questo cambiamento economico e sociale. Chi meglio di loro? Loro sono il futuro. Se si continua con il modello economico attuale sono i giovani e le nuove generazioni che pagheranno il conto di questa crisi. Sono loro che erediteranno questa catastrofe ambientale e queste imbarazzanti disuguaglianze economico e sociali. Una via potrebbe essere appunto quella di lanciarsi nell’imprenditoria sociale.
L’emergenza Covid-19 deve essere un’opportunità di cambiamento. Il modello economico e sociale esistente, che persegue ciecamente la crescita economica, che impone ritmi frenetici alle nostre vite, che riduce tutto a merce, non è sostenibile, né da un punto di vista ambientale, né da un punto di vista sociale e personale. Questa non è certo la prima di crisi che affrontiamo (né sarà l’ultima se continuiamo a non capire!) ma una cosa è sicuramente diversa rispetto alle precedenti: per la prima volta il mondo si è fermato. È come se Madre Natura ci stesse dicendo: “ragazzi, prendetevi una pausa di riflessione”. Ecco, durante questa pausa io vorrei invitare tutti, ed in particolare i giovani, a iniziare a immaginare un nuovo mondo, un mondo migliore, in tutti i suoi dettagli. A domandarsi: Che caratteristiche avrebbe? Come possiamo promuoverlo?
Io credo che in questo nuovo mondo non ci sarà posto per il modello d’impresa “tradizionale”, il cui principale se non unico scopo è l’arricchimento personale attraverso la massimizzazione del profitto, spesso a scapito dell’ambiente e dell’equità sociale. In questo nuovo mondo va promosso un nuovo tipo d’impresa, la cosiddetta “impresa sociale”. L’impresa sociale è un’impresa come le altre, quindi caratterizzata da autonomia decisionale, approccio innovativo e modalità imprenditoriali, con l’unica differenza che il principale obiettivo non è la massimizzazione del profitto, ma il benessere sociale, il raggiungimento di impatti sociali positivi. Il profitto è sicuramente ben accetto, ma rimane uno strumento per raggiungere un obiettivo sociale piuttosto che rappresentare un obiettivo a sé, e dopo aver permesso il recupero dell’investimento iniziale, questo deve essere reinvestito, almeno in parte, nell’impresa. Quindi ciò che distingue le imprese sociali dalle organizzazioni non-profit ed enti caritatevoli è che esse perseguono una attività continuativa di produzione di beni e servizi ad utilità sociale che permette loro, in molti casi, di essere finanziariamente sostenibili e quindi indipendenti da donazioni e sovvenzioni.
Nel modello socio-economico esistente che favorisce l’idea neoliberista quali sono le vie percorribili per lanciarsi concretamente nell’imprenditoria sociale?
A livello personale, i primi passi possono essere immediati. Ai giovani che nutrono un potenziale interesse per questo tipo di iniziative suggerirei di approfondire l’argomento cercando un corso d’imprenditoria sociale all’università oppure online. Sebbene l’offerta formativa su questo tema sia ancora alquanto limitata, esistono eccezioni. L’università di Trento, per esempio, offre un Master in Gestione delle Imprese Sociali, presieduto da uno dei maggiori esperti d’impresa sociale in Italia, il Prof. Carlo Borzaga, attuale presidente Euricse (Istituto Europeo di Ricerca sulle Imprese Cooperative e Sociali) e membro fondatore del network EMES (The Emergence of Social Enterprise in Europe). Per quanto riguarda i corsi online, suggerisco vivamente il corso molto pratico (in inglese) d’imprenditoria sociale offerto dal Prof. Ian C. MacMillan e dal Prof. James D. Thompson (Wharton University) su Coursera.
Inoltre, i giovani di qualsiasi formazione scolastica e accademica possono fare esperienza sul campo mettendosi in contatto con il gruppo Enactus della propria università (o formarne uno se già non esistesse). Enactus è una comunità di studenti, accademici e imprenditori di tutto il mondo con l’obiettivo comune di portare il cambiamento sociale attraverso l’imprenditorialità sociale. Oltre ad Enactus, i giovani possono mettersi in contatto con organizzazioni e reti di supporto specializzate sull’imprenditoria sociale, come Ashoka Italia e i diversi “Impact Hub” in Italia.
È chiaro però che le iniziative personali non bastano. Bisogna anche operare a livello istituzionale e governativo per creare un “ecosistema” che favorisca questo tipo di imprese. Alla base di un sano ecosistema d’imprenditoria sociale ci sono almeno quattro pilastri:
Accesso ai fondi: La sfida principale per gli imprenditori sociali è l’accesso ai fondi, sia nella fase di lancio (start-up capital) che nella fase di espansione (growing-up capital) dell’impresa. È quindi fondamentale facilitare il più possibile l’accesso ai fondi attraverso la diffusione di venture capital, prestiti, crowd-funding e sovvenzioni, da fonti sia pubbliche che private, e che siano mirate alle imprese sociali.
Capitale umano: Per gestire un’impresa sociale di successo è necessario avere mentori, dipendenti e consulenti di talento. Per generare questo capitale umano c’è bisogno di istituzioni e iniziative che promuovano l’istruzione e il training in imprenditoria sociale, per esempio attraverso corsi universitari, organizzazioni di conferenze, e la creazione dei cosiddetti “incubators”. Fondamentali sono anche le piattaforme online (come per esempio Good Jobs e Talents4Good) che facilitano il matching tra lavoratore e datore di lavoro nel mercato del lavoro con impatto sociale.
Regolamentazione e quadro giuridico: devono essere tali da rendere la creazione e la gestione di imprese sociali il più semplice possibile (in poche parole: poca burocrazia), e tali da incentivare la creazione di imprese sociali o la trasformazione di business tradizionali in business sociali, attraverso, per esempio, la concessione di agevolazioni fiscali.
Sviluppo di una rete di supporto: è necessaria per favorire l’interazione e lo scambio tra i diversi attori coinvolti nell’imprenditoria sociale, per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema, e per facilitare azioni congiunte. Questa rete include media che trattano temi legati all’imprenditoria sociale e ad un’economia sostenibile (come, per esempio, Impakter), organizzazioni che erogano certificati e premi per le migliori imprese sociali, e organizzazioni di rete e di supporto come quelle prima menzionate.
Quali sarebbero gli ambiti che più beneficerebbero dello sviluppo dell’impresa sociale? E che benefici concreti potrebbero conseguirne?
Tutti o quasi tutti. Sebbene attualmente le imprese sociali in Europa, insieme alle altre organizzazioni del terzo settore, operino principalmente nel settore dei servizi sociali, dell’impiego e del training, dell’ambiente, dell’educazione e dello sviluppo economico e sociale delle comunità (e in Italia in particolare nell’ambito dell’inserimento lavorativo dei soggetti svantaggiati), queste sono organizzazioni estremamente versatili con caratteristiche molto simili alle imprese normali quindi hanno il potenziale per operare in qualsiasi campo di attività che sia d’interesse alla comunità.
Per darvi un’idea degli enormi benefici che si potrebbero conseguire con lo sviluppo dell’imprenditoria sociale in diversi settori, vi faccio due esempi di imprese sociali di grande successo. La prima è chiamata Embrace Innovation, creata da un gruppo di studenti di Stanford e il cui scopo è di risolvere il problema della morte prematura di circa 1 milione di neonati all’anno nei paesi in via di sviluppo a causa dell’ipotermia. L’ipotermia (abbassamento patologico della temperatura corporea) potrebbe essere facilmente risolta con un incubatore tradizionale, ma il problema è questo costa circa $ 20.000 quindi molti ospedali nei paesi in via di sviluppo non possono permetterselo. Che tipo di risposte a questo problema ci possiamo aspettare dagli agenti tradizionali, ovvero dallo Stato, enti caritatevoli, e imprese standard? La tipica risposta dello Stato sarebbe quella di finanziare l’acquisto degli incubatori attraverso un sussidio (probabilmente usando aiuti internazionali), la tipica risposta degli enti caritatevoli sarebbe quella di finanziare l’acquisto degli incubatori attraverso le donazioni dei privati, mentre le imprese standard non offrono nessuna risposta a questo problema perché non ci sono opportunità di profitto. Qual è invece la risposta di Embrace? Questi studenti hanno creato uno scaldino per neonati (a vederlo sembra un sacco a pelo termico) a basso costo, ovvero circa l’1% del costo dell’incubatore tradizionale. Embrace vende questo scaldino alle fasce più deboli delle popolazioni che possono ancora permetterselo e con i conseguenti ricavi distribuisce il prodotto gratis agli ospedali più poveri. Ad oggi, sono stati salvati oltre 300.000 neonati in 22 paesi. Secondo voi, qual è stata la risposta migliore a questo problema?
Il secondo esempio è quello di Ecosia, una impresa sociale nata in Germania che offre un motore di ricerca (che raccomando a tutti!) come quelli tradizionali. Come per qualsiasi altro motore di ricerca, mentre gli utenti cercano, l’impresa genera profitti dalle entrate pubblicitarie. La differenza rispetto alle altre imprese? Ecosia dedica l’80% o più dei propri profitti ad un “fondo alberi” o direttamente a progetti di piantagione di alberi in tutto il mondo. Utilizzando questo modello, Ecosia ha investito quasi 13 milioni di euro per piantare oltre 90 milioni di alberi, ed è cresciuta fino a diventare un business multimilionario senza aver raccolto un solo dollaro dagli investitori di venture capital. Questo è il potere dell’imprenditoria sociale.
Ci sono dei dati numerici rappresentativi dello stato dell’arte relativamente all’impresa sociale? In altre parole che peso ha l’impresa sociale attualmente nell’economia sia in ambito europeo che italiano?
Purtroppo non esiste ancora una definizione universale di impresa sociale. La diversità delle strutture economiche nazionali, del benessere e delle tradizioni culturali e dei quadri giuridici fa sì che la misurazione e il confronto dell’attività dell’impresa sociale in Europa sia molto problematica. Detto questo, per darvi una idea puramente indicativa (non stima precisa!) degli ordini di grandezza dell’attività dell’impresa sociale in Italia (ma anche della difficoltà di misurazione) considerate che usando la definizione operativa di impresa sociale data dall’Unione europea, nel 2013 sono state stimate approssimativamente 40.000 imprese sociali in Italia. Mentre se si usa la definizione nazionale (ovvero data dal quadro giuridico), nello stesso anno si stimano all’incirca 12.000 imprese sociali, di cui circa 11.200 hanno la forma di cooperative sociali mentre circa 800 sono imprese sociali ex lege.
Per darvi invece un’idea (molto indicativa) dell’ordine di grandezza a livello aggregato, quella che viene definita “economia sociale” in Europa (misurata come l’aggregato di cooperative, mutue, associazioni e fondazioni) nel 2010 impegnava oltre 14,5 milioni di persone dipendenti retribuiti, pari a circa il 6,5 per cento della popolazione attiva dell’UE-27 e circa il 7,4 per cento nei paesi dell’UE-15.
In realtà però questi dati, oltre ad essere soggetti a grandi problemi di misurazione e quindi non molto attendibili, danno a mio avviso una visione piuttosto riduttiva del processo di diffusione dell’imprenditoria sociale. Infatti per capire meglio questo fenomeno bisogna inquadrarlo in un contesto più generale. Per esempio, bisogna anche considerare le crescenti iniziative di responsabilità sociale d’impresa intraprese dalle imprese standard. Per darvi un’idea, le aziende Fortune Global 500 spendono attualmente circa 15 miliardi di dollari all’anno in attività di responsabilità sociale, mentre il mercato americano e quello europeo hanno oltre 2.000 miliardi di dollari e 200 miliardi di euro in attività socialmente responsabili certificate. È chiaro che questi sono solo pochi spicci (meno del 2% del profitto delle stesse imprese) e che probabilmente per la gran parte di queste imprese questi investimenti sociali non sono altro che una strategia di marketing per aumentare il proprio profitto, ma il solo fatto che oggigiorno queste imprese siano chiamate dalla società civile ad assumere una responsabilità sociale, è un dato molto incoraggiante. Vuol dire, a mio avviso, che piano piano il mondo sta cambiando. Il resoconto del 2018 Deloitte Global Human Capital Trends riassume bene questo fenomeno di cambiamento: “Sulla base del sondaggio globale di quest’anno di oltre 11.000 leader aziendali e delle risorse umane, nonché delle interviste con i dirigenti di alcune delle principali organizzazioni odierne, riteniamo che sia in corso un cambiamento fondamentale. Le organizzazioni non sono più valutate basandosi solo su metriche tradizionali come le prestazioni finanziarie o anche la qualità dei loro prodotti o servizi. Piuttosto, le organizzazioni oggi sono sempre più giudicate sulla base delle loro relazioni con i loro lavoratori, i loro clienti e le loro comunità, così come il loro impatto sulla società in generale, trasformandole da imprese di business in imprese sociali”.
Infine, ci sono imprese standard che tradizionalmente sono impegnate nel sociale, come per esempio Patagonia, l’azienda americana di abbigliamento che commercializza e vende tessuti per l’outdoor. Patagonia dedica l’1% delle sue vendite totali a favore dei gruppi ambientalisti. Inoltre dona parte dei propri profitti, intraprende azioni interne di sostenibilità, e sensibilizza l’opinione pubblica sui problemi e le preoccupazioni ambientali. Nel 2012, Patagonia è diventata un’azienda certificata come “B Corporation”, il che la rende una società a scopo di lucro che soddisfa “rigorosi standard di prestazioni sociali e ambientali, responsabilità e trasparenza”. Queste attività forse non bastano per renderla una impresa sociale nel senso stretto della parola, ma se tutte le imprese fossero come Patagonia sarebbe già un grandissimo passo avanti verso questo nuovo mondo.
Referenze
Borzaga, Carlo and Bodini, Riccardo and Carini, Chiara and Depedri, Sara and Galera, Giulia and Salvatori, Gianluca, Europe in Transition: The Role of Social Cooperatives and Social Enterprises (June 13, 2014). Euricse Working Papers No. 69|14. https://ssrn.com/abstract=2436456
https://www.coursera.org/learn/wharton-social-entrepreneurship
Deloitte (2018) “2018 Deloitte Global Human Capital Trends”. https://www2.deloitte.com/content/dam/insights/us/articles/HCTrends2018/2018-HCtrends_Rise-of-the-social-enterprise.pdf. Accessed May 14
https://www.embraceinnovations.com/
European Commission (2015) “A map of social enterprises and their Eco-systems in Europe”. https://www.euricse.eu/wp-content/uploads/2015/11/Synthesis-report-FINAL.pdf
https://www.euricse.eu/people/carlo-borzaga/
https://www.ft.com/content/95239a6e-4fe0-11e4-a0a4-00144feab7de
Kitzmueller, Markus, and Jay Shimshack. 2012. “Economic Perspectives on Corporate Social Responsibility.” Journal of Economic Literature 50(1): 51–84.