Si svolgerà lunedì 27 aprile 2020 la cerimonia commemorativa congiunta israelo-palestinese, organizzata in sinergia dalla ONG Combatants for Peace e dal Parents Circle-Family Forum.
In onda da Tel Aviv e Ramallah, sarà trasmessa in diretta in tutto il mondo alle 19:30 ora italiana, alle 17:30 UTC (tempo coordinato universale), alle 18:30 ora di Londra e alle 20:30 ora Israele/Palestina.
Si tratterà del più grande evento pacifico inclusivo mai organizzato in collaborazione da palestinesi e israeliani. Avrà luogo online, in streaming, tramite trasmissione in diretta e su Zoom, col patrocinio di quasi quaranta organizzazioni e istituzioni religiose. È attesa la partecipazione di decine di migliaia di persone in tutto il mondo. Insieme, faremo la storia.
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La Joint Memorial Ceremony porta la luce e la speranza di cui abbiamo bisogno in questi tempi bui. Quando onoriamo l’umanità dell’altro e rispettiamo ciascuno come nostro pari contribuiamo a costruire un mondo basato sulla pace, sulla libertà e sulla dignità.
Rami Ben Ari, attivista israeliano che collabora da molto tempo con i Combatants for Peace, condivide con noi la sua esperienza della Joint Memorial Ceremony.
Il Memorial Day è sempre stato un giorno speciale per me, speciale come un groppo in gola che rifiuta di sciogliersi, fatto di ricordi che non mollano la presa. Perlopiù ricordi di due membri dell’unità, coi quali mangiavo dalla stessa gavetta, che sono stati uccisi davanti ai miei occhi in quella maledetta battaglia in Libano.
Per molti anni mi sono costretto a partecipare a tutte le cerimonie commemorative, sia quelle generali e ufficiali, sia quelle private, con l’assoluta certezza che fosse il modo giusto, l’unico, di ricongiungermi al loro ricordo.
Quando scoprii il Joint Memorial Day, la sola idea mi fece arrabbiare. Non riuscivo a capire: come si permettevano di contaminare questo giorno sacro? Chi erano queste persone deliranti e insensibili? Io mi definivo uno di sinistra e quelli organizzavano una commemorazione comune? Nello stesso giorno poi! Era troppo.
Poi ho letto un articolo su Robi Damlin e Rami Elhanan, che hanno perso i loro figli nel conflitto e hanno deciso di elaborare il lutto in questo modo nobile e coraggioso. Quel groppo in gola così familiare si è risvegliato, ma qualcosa iniziava a muoversi.
Nel 2014, in prossimità della cerimonia cominciai a pensare che valesse la pena dare loro una possibilità, e nel 2015, la sera stessa della cerimonia, stavo davanti alla porta con le chiavi dell’auto in mano e ci pensavo, ma alla fine rinunciai e ritornai in soggiorno.
A partire dalla cerimonia del 2016 mi presentai in qualità di volontario dei Combatants for Peace per vivere la cerimonia, ma in maniera controllata. Ero infatti coinvolto anche in compiti materiali legati al mio ruolo di usciere.
Fui molto sorpreso di veder arrivare la gente in massa. La sala si riempì rapidamente e verso l’inizio della cerimonia arrivarono anche le famiglie palestinesi che erano riuscite a ottenere i permessi necessari. Avevo una strana sensazione. Il groppo in gola rimaneva, ma questa frase – “Tutti noi, israeliani e palestinesi, siamo vittime del conflitto, del dolore e delle perdite, ma siamo anche quelli che lo portano avanti”, insieme alle parole delle famiglie che portavano il lutto, sia israeliane che palestinesi e a quelle di Desmond Tutu – mi toccarono e mi fecero provare sensazioni diverse. Capii che io, Rami, non ero solo in questa storia e anche che noi, israeliani, non eravamo soli. Anche l’altro lato subiva delle perdite, anche loro portavano il lutto ed è proprio questo che può creare una connessione tra noi.
Giungere a questa riflessione non è facile, di certo non lo è stato per me, ma ho capito che non c’è modo di tornare indietro. Più tardi, quando mi sono unito alla cerimonia in qualità di membro attivo dei Combatants for Peace, mi sono reso conto che questo è il modo di piantare i semi della trasformazione che io stesso ho affrontato, che sono germogliati presto e hanno sviluppato radici forti, profonde e in espansione. Oggi so, come altre migliaia di persone, israeliane e palestinesi, che NON c’è un altro modo.
Traduzione dall’inglese di Maria Fiorella Suozzo