Arriva un’altra brutta notizia. Apparteniamo tutti alla morte, quella falce che decide quando recidere la vita, e oggi, in mezzo alle migliaia di bimbi che muoiono di polmonite, di colera, di fame, di sete e di altrui profitto; in mezzo alle migliaia di umani di ogni età, sesso, religione e fazione politica che vengono massacrati affinché proliferi la più ignobile delle industrie, quella delle armi; in mezzo alle migliaia di morti vittime dirette o indirette della peste del momento, la covid-19, quella falce ha tagliato la vita di Luis Sepùlveda, lo scrittore, combattente, rivoluzionario, capace di farsi amare dai bambini con la sua vena fiabesca, e dagli adulti per quella scrittura che pur andando giù morbida come una carezza ti segna l’animo come un raggio laser.
Ora Luis lo scrittore, ma anche il compagno cileno che portava con sé il ricordo indelebile di quell’11 settembre del “73, quando il sogno di emancipazione sociale del suo Paese si spense sotto il colpo di Stato di Pinochet, ci ha lasciati a soli 70 anni, un’età che non è più quella di morire. Ma la morte, purtroppo, arriva a sua discrezione. Non furono gli anni di rischiosa militanza cilena, né quelli trascorsi in carcere sotto una delle più feroci dittature a ucciderlo, anzi la sua forza di vivere e di chiedere giustizia a tutto e per tutto il mondo ne fu accresciuta; non furono neanche le migliaia di sigarette fumate, no, Luis era un uomo forte ma non aveva più le difese immunitarie sufficienti a vincere il nuovo virus killer, e questo si è inserito nelle sue cellule trasformandosi in malattia, la covid-19, che gli ha tolto la vita a Oviedo, in un ospedale spagnolo.
Le sue lotte per un mondo più giusto, in sintonia con la sua produzione artistica, non riguardavano solo gli umani, Sepùlveda si batteva affinché il mondo sconfiggesse il dolore, compreso quello degli animali. I suoi viaggi sulle navi di Greenpeace, la sua denuncia contro la strage delle balene ne sono testimonianza; il suo invocare un modello di vita che restituisse rispetto all’ambiente e le sue passioni, compresa quella più umana e potente di tutte, le si ritrovano in tutti i suoi libri: sogni che si fanno fiabe, ricordi che si trasformano in romanzi e tra le pagine, chiari o infilati tra le righe, appaiono quei messaggi che denunciano la sua voglia forte di parlare agli altri e suggerire un percorso di coraggio e di apertura alla vita. La gabbianella che ha paura di volare e che “sull’orlo del baratro ha capito… che vola solo chi osa farlo” o l’inutilità di una porta chiusa da cui “la tristezza non può uscire e l’allegria non può entrare” sono solo un piccolissimo esempio di quel suo ribadire che il coraggio apre alla libertà, che la felicità è un diritto umano, che l’aprirsi al mondo porta bellezza e che coltivare i sogni è qualcosa di irrinunciabile per chiunque ami la vita intensamente, pur sapendo che tanti fallimenti ne segneranno il percorso.
E’ andato via così, ma ci ha lasciato uno scaffale di storie da leggere o da rileggere, e la perfida malattia che lo ha consegnato alla morte non ha potuto portarsi via quelle pagine scritte in uno stile letterario coinvolgente, spesso teneramente poetico e a volte affilato e tagliente come quando afferma che l’America Latina è una terra senz’altri punti cardinali che quello a nord, là dove confina con l’odio. E cos’altro poteva dire portando sempre con sé il ricordo di quell’11 settembre del “73 in cui la mano degli USA fu – direttamente per alcuni e indirettamente per tutti, Kissinger compreso – artefice di quel colpo di Stato militare che trasformò il Cile in una terra di inaudita violenza?
Ne “La storia finisce qui”, uno dei suoi ultimi libri, Sepùlveda racconta le pagine più buie del “900 compresa la trageda della dittatura di Pinochet, ma la donna del romanzo, seppur segnata indelebilmente dalle torture subite è presente e viva. La storia non finisce qui, infatti. Perché i sogni non sono abbattuti se non per un attimo dalle sconfitte e ciò che la morte non può prendere resta alla vita e il ciclo continua.
Mentre chiudiamo questo ricordo, ci dispiace doverlo notare, ma ci corre l’obbligo di farlo, una nota di TGCOM 24, ci informa della morte di Sepulveda, “autore di Cent’anni di solitudine”. Vergogna TGCOM 24, un vecchio detto forse confuciano invitava a stare in silenzio correndo il rischio di passare per sciocchi, piuttosto che aprire bocca e togliere ogni dubbio. Ecco, sarebbe stato preferibile il silenzio, cara prestigiosa agenzia di stampa, piuttosto che confondere due grandi scrittori, completamente diversi per stile letterario, forse solo perché entrambi latinoamericani, ma guarda caso, l’uno nato in Colombia e morto alcuni anni fa in Messico e l’altro nato in Cile e morto ieri in Spagna.
TGCOM24, scoperto e giustamente criticato per questo, che non è un refuso, ma è l’insulto dell’ignoranza sia verso Sepùlveda che verso Garcìa Marquez, si scusa dicendo testualmente “la prossima volta staremo più attenti”, come se avessero inavvertitamente rovesciato dell’acqua sulla tavola sicuri che presto la cosa sarà dimenticata e non ne resterà traccia.
Noi invece la ricorderemo perché non è solo un insulto ai due scrittori, ma è anche un chiaro segnale del pressappochismo che sempre più contraddistingue alcuni media mainstream.
Ma ora salutiamo Sepulveda immaginando che quella gabbianella sopravvissuta grazie al gatto che “contro-natura” non la mangiò ma le insegnò a volare, seguiti ancora a volare portando alto il ricordo del suo creatore e il diritto di dar forma ai sogni passando il testimone quando il destino lo impone.