E’ ormai chiaro che la pandemia di Covid-19 non è che una manifestazione della crisi climatica e ambientale in cui siamo entrati da tempo. Durerà a lungo, in forme intermittenti o permanenti, forse per reviviscenza dello stesso virus, forse per comparsa di virus nuovi. La “normalità” cui dobbiamo abituarci è questa. E in questa normalità, sia ancora dentro che già fuori dai periodi brevi o lunghi di “distanziamento spaziale” (che Jeremy Rifkin prospetta permanente), dobbiamo sviluppare cultura, proposte e strumenti per affrontare l’altra crisi, quella climatica e ambientale.
Sembra però che l’economia, “quando tutto sarà finito”, preoccupi anche più della salute: il dibattito si concentra quasi solo su finanza (debito pubblico e privato, eurobond, MES, liquidità) e moneta (helicopter money, certificati fiscali, euro, da cui peraltro quasi più nessuno propone di uscire). Perché la finanza domina e ingloba ormai tutta la vita. Per il resto ci si chiede solo se e quando si tornerà alla normalità (di prima), o se invece si va incontro, per scelta o necessità, a cambiamenti radicali: soprattutto degli “stili di vita” e dei consumi. C’è chi teme, a ragione, che la domanda non riprenda e chi auspica che il covid-19 abbia insegnato a tutti che questo sistema è insostenibile.
Turismo e commercio minuto (ma non la Grande Distribuzione, che se ne è avvantaggiata) sembrano le vittime designate della crisi, insieme al turismo, mentre il mondo delle imprese si comporta come se i settori “pesanti” siano destinati a continuare a produrre come prima, addirittura finanziando, in piena pandemia, nuove grandi opere (autostrade, per le olimpiadi invernali del 2026!) e nuovi sommergibili e bombardieri. Così si sforza di tenere le fabbriche aperte, mettendo a rischio vita e salute di operai, famiglie e vicini per non interrompere le rispettive catene di sbocchi e forniture.
Ma lo stile di vita non potrà cambiare se ad esso non corrisponderà anche la riconversione dell’apparato produttivo. Vuol dire decidere (in modalità condivise) quali settori tenere in piedi e quali chiudere o riconvertire: questione sempre solo sfiorata, ma nel cui merito nessuno osa, per ora, addentrarsi. Ma bisogna farlo cominciando dalle cose più semplici.
Tutti dicono che il settore sanitario va rafforzato, ponendo fine a tagli e privatizzazioni, finanziando le strutture che si sono dimostrate carenti (tutte) e hanno causato migliaia di morti e dotandole di quegli impianti, presidi e attrezzature che sono mancate. Ma l’asse della sanità va spostato dalla terapia alla prevenzione, il che significa riorganizzarla su basi territoriali diffuse. Lo stesso vale per la Protezione Civile, che non può più intervenire solo a disastri avvenuti, bensì in modo preventivo, attrezzando ogni territorio con tutti i presidi necessari: epidemia e terremoti, per esempio, sono eventi prevedibili, se non nel tempo, nei possibili sviluppi, di cui non si è mai tenuto conto. Lo stesso vale per l’educazione, che deve essere permanente e riorganizzata su basi diffuse e per la ricerca, che per essere “democratica” deve misurarsi con i suoi destinatari.
Poi ci sono settori da aprire, potenziare o ristrutturare (energia, efficienza, edilizia abitativa, agricoltura biologica di prossimità, forestazione) che possono assorbire, a tutti i livelli di qualificazione, manodopera “liberata” da settori di cui, alla luce della crisi climatica e ambientale, sono auspicabili ridimensionamento o chiusura. Il primo è quello delle armi e della cantieristica, che in Italia produce solo navi da guerra e da crociera (un “settore” stupido, catastrofico per l’ambiente, rivelatosi grande focolaio di infezioni). Poi vengono quelli delle costruzioni (grandi opere) dell’auto, della nautica, della moda, della petrolchimica e relative filiere (tra cui la grande siderurgia, risolvendo per sempre la questione Taranto). Non è un caso che siano proprio quelli dove gli operai comandati al lavoro manifestano, scioperando, la convinzione della loro inutilità, per lo meno rispetto alle esigenze dell’emergenza. Come fanno da tempo le popolazioni dei territori su cui molti di quegli interventi insistono.
E’ un’occasione da non perdere: se si cercano i “soggetti”, le forze sociali, le istituzioni da cui può sprigionarsi un progetto di conversione ecologica bisogna partire da questa loro consapevolezza, lavorando per prospettare insieme a loro adeguate garanzie di reddito (quelle che già chiedono ora) e di ricollocazione nei settori da promuovere. D’altronde molti di loro sanno bene che, tranne per l’industria delle armi, cui le commesse non mancano mai, i settori in cui sono impiegati non ritorneranno più ai fasti di prima. Lo confermano ormai molti analisti economici, che ne prevedono un vero crollo. Come non ci tornerà il turismo.
Ma come procedere? Bisogna sostenere questa consapevolezza con l’apporto di team multidisciplinari di esperti che li aiutino a fare un check-up dell’azienda o del contesto per mettere in campo nuovi progetti. A farsene carico dovrebbero essere le amministrazioni municipali. Ovviamente, per ciascuno di essi, bisognerà ricomporre tutta la filiera, e a questo non può provvedere che un potere centrale. Ma lo farà solo se costretto dalla spinta di un’iniziativa dal basso
C’è infine un settore di cui nessuno parla, che fa in qualche modo da barriera tra i molti – lavoratori e non – che vivono alla base della piramide economica e i pochi che ne reggono le fila. Ed è forse, dopo il turismo, il settore più sviluppato e articolato del mondo: quello del marketing e della pubblicità, vera arma di distrazione di massa per promuovere l’accettazione del mondo com’è. E’ il vero universo della cultura contemporanea, quella che plasma lo spirito di un’epoca e a cui è facile ricondurre una molteplicità di ruoli “creativi”: grafici e copywriter, ma anche artisti e scrittori che ne influenzano lo stile, divulgatori e persuasori che lo diffondono, sociologi e stilisti, attori e indossatrici, e uomini-macchina delle rilevazioni demoscopiche (sempre più concentrate nelle centrali del capitalismo della sorveglianza). La conversione ecologica ha bisogno anche di loro, ma non nei loro ruoli attuali. E il crollo del loro settore potrebbe liberare una massa compressa di creatività diffusa capace di cambiare l’immagine del mondo.