J.K Galbraith nel suo Il nuovo stato industriale (1967) affermò che le grandi corporazioni si sarebbero trasformate nell’unità economica strategica di maggior significato e importanza del mondo. Ed è accaduto. Siamo giunti a un punto della storia, in cui esistono aziende talmente grandi da essere addirittura più forti di interi paesi. Pensiamo a ExxonMobil, economicamente più forte di Malesia, Perù o Ucraina.
Tale potere comporta l’aumento di un altro tipo di potere, quello decisionale, mediante pressioni politiche. Anche se non in forma diretta, spesso le multinazionali di settori strategici controllano la politica a tutti i livelli: locale, nazionale, regionale e mondiale. I casi più eclatanti sono quelli delle imprese transnazionali (ETNs) del petrolio, del gas, della finanza, dell’informatica… ecc. Si tratta di grandi aziende che esercitano un controllo imponente nello sviluppo della vita delle persone e degli Stati.
Concentrazione di potere
Stefania Vitali, James Glattfelder e Stefano Battiston, ricercatori dell’Università di Zurigo, hanno pubblicato, nel 2011, The Network of Global Corporate Control, sulla rivista scientifica PlosOne.org. Nella presentazione dello studio, gli autori hanno scritto: “La struttura della rete di controllo delle aziende transnazionali influenza la concorrenza del mercato mondiale e la stabilità finanziaria”.
Lo studio dimostra che un piccolo gruppo di società – principalmente banche – è in grado di esercitare un potere enorme sull’economia globale. Il lavoro ha analizzato un totale di 43.060 aziende transnazionali, la ragnatela della proprietà costituita tra di esse e ha disegnato una mappa di 1.318 aziende costituenti il cuore dell’economia globale.
Lo studio ha rivelato che 147 aziende hanno sviluppato al loro interno una “super identità”, in grado di controllare il 40% della propria ricchezza. Tutti possiedono una parte o la totalità dell’uno e dell’altro. Per la stragrande maggioranza si tratta di banche come Barclays, Deutsche Bank e Goldman Sachs.
E questo in accordo con Tim Koechlin, che nel suo saggio I ricchi diventano più ricchi: Il neoliberalismo e la disuguaglianza galoppante (2012) afferma:
Il club delle persone più ricche del mondo raggiunge i 40 milioni di individui. Di questi, 6.000, ovvero una milionesima parte della popolazione mondiale, possiede la maggior parte della ricchezza del pianeta. Negli ultimi anni, questo esclusivo club ha visto crescere la propria ricchezza del 275%. Il risultato è sconvolgente: l’1% della popolazione detiene quello di cui avrebbe bisogno il 99%”.
È evidente il mega potere economico detenuto dalle imprese transnazionali. Basti pensare, per esempio, che una delle maggiori aziende del mondo, WalMart, detiene un volume annuale di vendita che supera la somma del Prodotto Interno Lordo di Colombia ed Ecuador, mentre l’azienda petrolifera anglo-olandese Shell può contare su entrate che superano il PIL degli Emirati Arabi Uniti. Al contempo, le società multinazionali dispongono di un innegabile potere politico: gli stretti rapporti tra governanti e imprenditori diventano moneta di uso corrente, basti pensare per esempio, solo per citare alcuni casi, agli ex presidenti F. González, J. M. Aznar, T. Blair e Schröder, entrati, rispettivamente, nel direttivo di società come Gas Natural Fenosa, Endesa, JP Morgan Chase e Gazprom; allo stesso modo, ma in senso opposto, Mario Draghi e Mario Monti sono passati da Goldman Sachs alle presidenze della Banca Centrale Europea e del Governo italiano. Senza dimenticare la contrattazione dell’ex presidente della Commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso in veste di vicepresidente senza incarichi esecutivi e advisor della multinazionale finanziaria Goldman Sachs International.
Violazione dei Diritti Umani
Esistono, inoltre, situazioni di violazione dei diritti umani derivate dall’azione diretta o indiretta delle ETNs; si tratta di situazioni specifiche, o sistemiche a livello globale, come la responsabilità delle ETNs nel cambiamento climatico, o del capitale finanziario mondiale concentrato nelle banche a causa della crisi finanziaria mondiale e della sue conseguenze. Questo dibattito internazionale, che va avanti da circa 40 anni, è entrato a gran voce a far parte dell’agenda attraverso casi paradigmatici e gravi di violazioni, di cui erano responsabili le ETNs. Il caso che ha dato il via al dibattito è quello dell’ingerenza politica della statunitense International Telephone and Telegraph Company (ITT) negli anni Settanta in Cile, e che è culminata con il Colpo di Stato e la morte di Salvador Allende. Inoltre, casi come quello di Bophal in India nel 1984, quando fuoriuscirono gas tossici dallo stabilimento della Union Carbide (acquisita poi da Dow Chemicals), che causò la morte diretta di tremila persone, quella indiretta di altre diecimila, con effetti che ancora oggi sono visibili in cento cinquantamila persone. Oppure, il crimine perpetrato contro gli indigeni Ogoni, in Nigeria. Le pressioni di Shell e la sua attività petrolifera diedero vita a situazioni di oppressione nei confronti di questo popolo, che si conclusero con la morte di diversi suoi membri, e che ancora oggi hanno ripercussioni negative sull’ambiente della zona del Delta del Niger.
Il massacro avvenuto nelle piantagioni di banani, perpetrate nel 1928 dalla società statunitense United Fruit Company. Da allora la multinazionale, attualmente denominata Chiquita Brands, colleziona denunce per accaparramento dei terreni, utilizzo schiavizzato della manodopera, concussione e corruzione politica. Al contempo, la “bananiera” partecipò alla defenestrazione del Presidente del Guatemala, Jacobo Arbenz, nel 1954. Nel settembre 2007 l’azienda ha dovuto pagare una multa di 25 milioni di dollari negli Stati Uniti per aver finanziato paramilitari colombiani.
La Guerra del Chaco tra Paraguay e Bolivia (1932-1935) ebbe come catalizzatore gli interessi delle società petrolifere Standard Oil Company (attualmente Chevron-Texaco e Exxon Mobil) e Royal Dutch Shell.
Il massacro degli ebrei (1941-1945) ha contato con la complicità di società tedesche (tra cui, Krupp, Siemens, BMW e Wolkswagen) e nordamericane come Ford e General Motors.
Durante la guerra civile in Angola (1975-2002), una parte dei ricavi delle aziende petrolifere -BP, Exxon Mobil- veniva impiegata per finanziare l’acquisto di armi.
Negli anni Settanta, Peugeot, Ford e Mercedes Benz trassero beneficio dalla persecuzione nei confronti di militanti dei sindacati per mano della dittatura militare argentina.
Nestlé è stata oggetto di denunce per aver promosso il latte in polvere in sostituzione di quello materno in Africa, con gravi ripercussioni sulla salute e sulla sicurezza alimentare.
In tempi più recenti, abbiamo assistito all’omicidio di Berta Cáceres e di altri dirigenti del Consiglio Civico di Organizzazioni Popolari e Indigene in Honduras (COPINH), che resiste al progetto idroelettrico Agua Zurca; oppure di Sikhosiphi “Bazooka” Radebe, attivista contro l’industria mineraria a Mdatya, Amadiba, in Sudafrica; o gli omicidi dei leader sindacali in Colombia e Guatemala; oppure il disastro nella località di Mariana, nella regione brasiliana di Minas Gerais, che per la negligenza delle aziende minerarie Vale, BHP e Samarco, ha provocato la morte di diciassette persone e ha dato luogo al più grande disastro ambientale della storia del Brasile.
Questi sono casi estremi di violazione dei diritti umani di cui ci occupiamo attualmente e che riguardano iniziative delle ETNs. In queste regioni del mondo, il progresso non è tale da garantire condizioni affidabili e complete di accesso alla giustizia a popolazioni come quella honduregna, sudafricana, indiana, guatemalteca, colombiana e di tanti altri Paesi del Sud del mondo, che soffrono le conseguenze dell’azione economica e delle industrie.
Le aziende esistono per il guadagno. Non fanno beneficenza né pensano in modo strategico al bene di qualsiasi società del pianeta, fatto salvo per la loro “società anonima”. Questo fatto deve essere sempre tenuto in conto quando analizziamo gli interessi degli investitori stranieri. In primo luogo, dobbiamo pensare che le aziende straniere investono qui per avere vantaggi che altrove non hanno: 1 – salari più bassi, 2 – meno diritti sociali e lavorativi, 3 – imposte e obblighi fiscali bassi o addirittura nulli, 4 – accesso facile ed economico a risorse naturali ed energia, 5 – norme ambientali, lavorative e finanziarie permissive o inesistenti, e 6- Stati – e soprattutto sistemi giudiziari – deboli e vulnerabili. In secondo luogo, accesso a nuovi mercati per i loro prodotti e servizi. Dietro ognuno di questi benefici o di queste “opportunità” si nasconde un problema per le nostre società, poiché anche società, i cui Stati sono più potenti e i cui vantaggi risiedono nella dimensione o nel potere d’acquisto del proprio mercato interno, finiscono per essere colpite dallo stimolo all’ingresso di grandi aziende o alla creazione di grandi aziende proprie.
Il risultato dell’ingresso delle aziende straniere, di solito non dà grandi benefici ai Paesi anfitrioni. I casi più estremi vedono lo sfruttamento intenso delle risorse naturali con conseguenze ambientali molto gravi per le comunità locali; movimento economico ridotto a livello regionale, dal momento che funziona come un’enclave chiusa; e costante lotta per l’appropriazione dei guadagni, che per la maggior parte rimangono in mano dell’azienda e non vanno agli Stati. Secondo l’inviolabile cliché, per cui gli Stati poveri non saprebbero sfruttare le proprie risorse naturali se non attraverso gli investitori stranieri.
Tutto quanto detto finora ha il seguente corollario:
– Il rapporto della fondazione Oxfam “Premiare il lavoro, non la ricchezza” (2018) rivela che “Nel 2017 il numero di persone che ha guadagnato più di mille milioni di dollari ha toccato il massimo storico, con un nuovo miliardario ogni due giorni. Tale incremento avrebbe potuto mettere fine alla povertà estrema nel mondo per sette volte. L’82% della ricchezza generata nell’ultimo anno è finita nella mani dell’1% più ricco, mentre la ricchezza del 50% più povero non è aumentata affatto. La ricchezza estrema di pochi si regge sul lavoro pericoloso e mal pagato di una maggioranza”. Inoltre, lo stesso rapporto rivela che:
– Lo sforzo nel lavoro non necessariamente garantisce il progresso per le classi lavoratrici. Il 43% della popolazione giovane attiva non ha un lavoro o, se lavora, continua a vivere in povertà. Tra il 1995 e il 2014, in 91 Paesi su un totale di 135, l’aumento della produttività lavorativa non ha coinciso con incrementi salariali.
-Infine, i ricchi osservano da seduti come la loro ricchezza cresce mentre i lavoratori, nonostante gli sforzi, non vedono migliorato il proprio tenore di vita.
Di Jorge Molina Araneda e Patricio Mery Bell
Traduzione dallo spagnolo di Ada De Micheli