Da circa tre mesi il nuovo coronavirus ha invaso ogni spazio mediatico, e tra la triste conta dei morti e le numerose contraddizioni sia sul piano scientifico che su quello politico, ogni tanto trova spazio, incredibilmente, anche qualcosa di bello.
Non parlo della retorica del canto dai balconi, alla quale purtroppo fa da contrappeso una violenza domestica mai sopita ma solo oscurata, non parlo neanche delle iniziative solidali che hanno trovato una sintesi virtuosa nel cartello appeso a un cesto con su scritto “chi ha metta, chi non ha prenda”. Frase che è rimbalzata ovunque moltiplicando le iniziative di solidarietà. Ma non parlo di questo.
Parlo di una cosa proveniente da un territorio grande appena due volte la superficie di Milano, circondato da muro e reti che rinchiudono due milioni di abitanti. Parlo della Striscia di Gaza. Da lì infatti, oltre che dalla Cisgiordania, sono arrivati all’Italia commoventi messaggi di solidarietà proprio negli stessi giorni in cui i francesi, in un’odiosa pantomima diffusa nei social, irridevano l’Italia aggredita dal virus che, ancora, non parlava francese. Cosa che avrebbe fatto di lì a poco mietendo vittime senza rispetto per la “grandeur française” e trasformando in pavidi fuggiaschi i precedenti meschini sbeffeggiatori
Dalla Palestina, invece, ci arrivavano video di solidarietà e da Gaza, in particolare, insieme, ma senza irrisione, arrivava al nostro popolo in quarantena l’invito a capire cosa significhi essere privati della libertà, esperienza che grazie all’assedio israeliano i gazawi vivono da 13 anni e in condizioni certo meno confortevoli delle nostre.
Poi, 20 giorni fa, il nuovo coronavirus arriva anche in Palestina. A questo punto monta l’angoscia, in particolare per la sorte che potrebbe aspettare a Gaza rinchiusa e assediata. Gli ospedali della Striscia hanno subito danni enormi in questi 13 anni e non potrebbero sostenere l’epidemia; le condizioni di vita a cui è costretta gran parte della popolazione assediata sono l’ideale per diffondere il contagio provocando una tragedia immane. Che fare?
Tanto i medici che i rappresentanti di alcune associazioni locali, a chi li interroga per sapere come poterli aiutare nell’immediato, rivolgono questo appello: “Potete aiutarci a tenere sotto controllo l’infezione. Mandateci mascherine, guanti, disinfettanti. Mandateci tutto ciò che può fermare il contagio perché i nostri ospedali non reggerebbero. Noi faremo il possibile, ma non abbiamo neanche i dispositivi individuali di sicurezza”.
Ed ecco il miracolo di Gaza. Pochi sanno che in questa martoriata striscia di terra, dove convivono macerie e ricostruzioni, baracche e palazzi, esasperazione e speranza, singhiozzi e allegria c’è anche qualche stilista che disegna abiti in laboratori di sartoria che sognano di diventare vere e proprie case di moda.
Ma ora c’è il virus da bloccare e allora i laboratori di sartoria si trasformano in produttori di mascherine sanitarie, camici, tute.
E qui vogliamo parlarvi di Soad, la titolare dell’azienda Maraky, una sartoria alla quale una piccola associazione italiana ha commissionato 20.000 mascherine da distribuire urgentemente alle persone più svantaggiate. Le mascherine sanitarie più semplici costano solo 1 nis, vale a dire circa 25 centesimi di euro, l’equivalente di un sorso di caffè. Con un intero caffè se ne possono comprare quattro. Eppure a Gaza c’è chi non può disporre neanche di quel nis. A queste persone, più povere tra i poveri, verranno date subito le mascherine che il laboratorio sta producendo.
Soad è una donna con un passato che a Gaza può considerarsi tragicamente “normale”. Come tante altre donne è rimasta vedova molto giovane grazie alla mira di un cecchino israeliano che ha ucciso suo marito mentre era sul tetto della sua abitazione a Rafah, nel sud della Striscia.
Era il 2004. Soad era sposata da 6 anni e aveva dato alla luce tre bambini. A Gaza non c’era ancora l’assedio ma c’erano ancora i coloni israeliani, quelli che un lungimirante e cinico Sharon avrebbe evacuato l’anno seguente per concentrarsi sulla Cisgiordania con l’obiettivo di un’illegale annessione da realizzare passo dopo passo.
Soad, rimasta vedova, aveva continuato a lavorare nella sua sartoria crescendo i suoi tre figli ma sognando di poter un giorno utilizzare il suo diploma di stilista. Il dolore a Gaza si inghiotte come l’acqua, e si va avanti. Qualcuno la chiama resilienza.
Non ci si lasci ingannare dagli stereotipi che fanno supporre che sotto l’hjiab o il niqab ci siano donnine sottomesse, assoggettate all’uomo e prive di autonoma volontà. No, sotto l’hjiab, come sopra i tacchi a spillo, ci possono essere donne forti e donne succubi, e le donne gazawe sono per lo più donne forti, capaci di combattere sia per se stesse che per i diritti del proprio popolo e Soad è una di queste, infatti con gli anni è riuscita a realizzare il suo atelier a Rafah, proprio come aveva desiderato. Ma nell’estate del 2014, quando Israele lanciò “margine protettivo” – la tremenda aggressione che in 51 giorni e 20.000 tonnellate di esplosivo, uccise circa 2500 persone delle quali oltre 550 erano bambini, ne ferì gravemente circa 11.000, demolì case, moschee, scuole, ospedali – in quell’estate anche la sartoria di Soad venne rasa al suolo.
Ma Soad è una donna palestinese, il dolore si inghiotte come l’acqua e si va avanti. Da Rafah si sposta a Gaza city, dove fonda la ditta Maraky, una sartoria in cui lavorano diverse ragazze e anche qualche ragazzo, desiderosi di apprendere le nozioni che lei stessa, coadiuvata da Samar, altra stilista gazawa, impartisce loro nei vari workshop di fashion designer che riesce a organizzare oltre al lavoro di cucito.
Ma ora servono camici, tute isolanti, mascherine sanitarie, gli abiti possono aspettare. Così la ditta Maraky comincia a produrre ciò che serve per ridurre la diffusione del coronavirus. Anche altre sartorie stanno facendo lo stesso mentre Israele, incurante del morbo e dei diritti umani, irrora di glifosato i raccolti gazawi lungo il confine. Per crudeltà? Per tenere sotto terrore i gazawi? Per stimolare una loro reazione che giustifichi un nuovo bombardamento? O forse molto più semplicemente per costringerli a comprare i suoi prodotti e seguitare a usare Gaza “anche” come mercato di sbocco? Qualunque ne sia il motivo resta un’azione criminale ad andamento periodico che, al pari delle altre, resterà impunita. Ma i palestinesi resistono da 72 anni e seguiteranno a farlo. Ora c’è un altro killer da temere, un killer che sta colpendo anche Israele e che, paradossalmente, a Gaza sta producendo anche un effetto marginale positivo, mostrando a tutti che quella prigione a cielo aperto non è solo luogo di sfacelo e disperazione, ma anche di resilienza e di creatività ed è capace di sviluppare una propria autonoma economia nonostante l’assedio.
La ditta Maraky e tutte le sartorie ora producono mascherine. La solidarietà internazionale le finanzia affinché possano essere distribuite a chi non può comprarle. Sono produzioni locali, il ricavato resta nella Striscia di Gaza e questo impedirà a Israele – che non distribuisce dispositivi sanitari ai palestinesi sotto la sua occupazione – di lucrare sulla pandemia approfittando dei finanziamenti che per solidarietà umana, forse prima ancora che politica, arrivano a chi sta sotto assedio.
Il virus prima o poi si ritirerà, l’atelier di Soad riprenderà a produrre abiti, e in mezzo a tanti lutti il virus avrà anche dato l’occasione di riflettere sulla bellezza della solidarietà e l’importanza di un cambiamento di rotta sui nostri stili di vita.