Il fatto che il confinamento sia duro non rappresenta più un fattore di novità. Lo dice il nostro conto in banca, la fila al supermercato e la fossa nel divano. Tuttavia, forse più che il distanziamento sociale, è il tempo che abbiamo a disposizione a farci paura. Troppo tempo per pensare, riflettere, mettere in discussione dogmi che non abbiamo mai avuto il coraggio di contraddire e abitudini che non avevano senso di essere cambiate. Tempo insomma, per pensare al presente e ripensare il passato, tempo per immaginare il futuro e visualizzare il giorno in cui tutto tornerà alla normalità. Tempo per riordinare la scala delle priorità, per diventare più realistici e meno cinici, più coscienti ed empatici, più attivisti, fattivi e meno passivi.
Ma anche durante questo momento difficile, il mondo non si ferma. Non si fermano le crisi, le guerre e le migrazioni, non si fermano le nascite né le morti, non si fermano i disastri ambientali né le tragedie sui barconi in mezzo al Mediterraneo. E quindi ci viene ricordato che, dopotutto, stiamo vivendo una crisi insolita, una sorta di guerra dei divani, che ci espone continuamente alle tragedie altrui pur rimanendo nel comfort delle nostre abitazioni. Questo naturalmente vale per coloro che un’abitazione ce l’hanno. E quindi ecco che ritorna il cambio di prospettiva, la domanda fatidica che ognuno di noi è invitato a fare: dobbiamo, nonostante tutto, essere grati?
Proprio a questo riguardo, si può andare a rispolverare un articolo scritto da Dina Nayeri, acclamata scrittrice statunitense d’origine iraniana, e pubblicato sul The Guardian nell’aprile del 2017 dal titolo “Il rifugiato ingrato: ‘Non dobbiamo ripagare nessun debito’” (tr.). Nel suo articolo, investiga una domanda attualissima, ovvero se i rifugiati debbano essere eternamente grati al loro paese di accoglienza per averli salvati da una vita di miseria e dolore.
Questa diventa una domanda fondamentale se unita al tema dell’inclusione, dell’uguaglianza sociale, dell’abbattimento delle barriere mentali e fisiche. Nessun individuo potrà mai sentirsi davvero parte di una comunità se la sua esistenza rimarrà strettamente ancorata all’idea di un debito da ripagare, di una concessione generosa, di un regalo che non può essere dimenticato. Ma l’accettazione dell’altro non può essere legata a un vecchio prestito e soprattutto non può basarsi sulla richiesta di abbandono e ripudio della propria identità, cultura e storia.
Dare il “benvenuto” non deve essere un atto di dimostrazione di superiorità, ma piuttosto un segnale di apertura verso un individuo che ha avuto la forza d’animo di credere in se stesso e di voler vivere una vita degna di essere vissuta. Dare il “benvenuto” vuol dire essere abbastanza maturi da capire che non esistono primati, ma solo sforzi condivisi per arrivare al bene comune. Dare il “benvenuto” vuol dire voler imparare, migliorarsi e innovarsi, rimanendo coscienti che le idee più geniali nascono in risposta a bisogni profondi e vitali. Bisogni che, forse, noi abbiamo dimenticato.
Ma prima di ogni “benvenuto” c’è l’attesa. Ogni migrante ha conosciuto e vissuto l’attesa. Seduti per settimane, mesi, anni, rinchiusi in un tempo dilatato, senza fine e senza urgenza. Aspettano speranzosi di ricevere un sì, di venir ritenuti adeguati al nostro ideale di cittadino, di sentirsi finalmente “abbastanza” per far parte del gioco. Non hanno il diritto di avere aspettative, di sentire la loro vita sfuggirgli lentamente di mano, di voler rimanere ancorati alla loro identità culturale e di voler trovare migliori opportunità.
E ora, quasi paradossalmente, milioni di cittadini italiani sono anch’essi relegati in casa, anch’essi seduti, in attesa. Ignari di quali opportunità si apriranno domani, ansiosi di sapere se avranno ancora un lavoro o no, e se le loro competenze saranno ancora necessarie. Le giornate ci sembrano infinite, ci sentiamo di perdere tempo e di non essere padroni delle nostre vite. Sentiamo l’urgenza di trovare soluzioni adeguate, un’urgenza che però non siamo spesso in grado di concedere a coloro che bussano alle nostre frontiere, a coloro che non hanno un divano sul quale aspettare il nostro verdetto.
A questo punto la domanda sembra essere: chi è che dovrebbe essere grato? E: ha ancora senso parlare di gratitudine? Forse è il momento di fare un salto di qualità, spostandosi dalla gratitudine alla responsabilità, dall’attesa all’ascesa verso una società più equa e curiosa di scoprire nuovi modelli di convivenza, condivisione e crescita personale ed economica.