Dopo le testimonianze di Anita Sonego, Pietro Forconi, Davide Scotti, Mattia Rigodanza, Serena Vitucci e Veronica Alfonsi è la volta di Rolando D’Alessandro, italiano residente da anni a Barcellona.
L’emergenza coronavirus ha creato una situazione nuova per tutti, sconvolgendo abitudini e certezze, ma per gli attivisti ha significato anche la cancellazione di iniziative organizzate da tempo, o ancora da realizzare. Come hai vissuto e vivi questo momento?
Con preoccupazione. Non per la situazione in sé, visto che io sono tra quelli convinti da parecchio che questo sistema prima o poi collasserà, quanto proprio per la risposta dei movimenti. Impreparati quanto o più della società civile. È evidente che siamo in una fase di trasformazione accelerata del modello economico e sociale. Così com’e evidente l’intenzione delle elites di dominarla e governarla. La pandemia ci ha preso in contropiede e non solo per l’impossibilità di mantenere il nostro programma di azioni o riunioni, ma proprio per l’incapacità di pensare una risposta immediata (tattica) che s’inserisse in un discorso di più ampio respiro (strategico). Secondo me stanno venendo al pettine i nodi di una sinistra (da quella riformista ai settori antagonisti) che ha ormai rinunciato a progetti ambiziosi di trasformazione radicale del presente e si limita a barcamenarsi nelle paludi del pragmatismo.
In Spagna e in Catalogna il problema è aggravato dalla presenza di un settore (Podemos e Comuni) che fino a pochissimo tempo fa era identificato con una certa radicalità movimentista e che adesso affronta questa crisi stringendo i ranghi attorno a istituzioni caposaldi del sistema, come esercito e polizia, e cercando di neutralizzare, con contromisure assistenzialiste, le reazioni popolari (esempio dei gruppi di supporto mutuo, che sono reti di empowerment collettivo nei quartieri o della rent strike, frenata con l’annuncio di fantomatiche misure governative a favore degli inquilini meno abbienti).
Ci sono comunque spunti che aiutano a non perdere la speranza. La gente, e soprattutto molti giovani, creano sul territorio moltissime esperienze di solidarietà e autogestione: dalla fabbricazione di mascherine alla distribuzione di alimenti, alla consulenza su temi come lavoro e diritti, all’educazione, che vanno a innestarsi in strutture preesistenti (comitati per il diritto alla casa, assemblee di quartiere, mercati di prossimità autogestiti) allargandole e rinforzandole. D’altra parte l’ultimo decennio di lotte sociali, sindacali e per il diritto all’autodeterminazione ha lasciato in Catalogna una molteplicità di soggetti collettivi critici nei confronti dell’ordine stabilito e ancora attivi.
La speranza è che questi venti che attraversano la base sociale possano far divampare una rivolta non distruttiva e nichilista, ma diretta da valori di umanità ed empatia.
Quali risposte nuove e creative ha trovato il tuo gruppo per continuare la sua attività nonostante le limitazioni imposte da questa emergenza?
Io mi muovo in collettivi anti-repressivi e CDR (comitati di quartiere repubblicani e indipendentisti). Nei quartieri si stanno tessendo nuove reti di supporto mutuo che vanno dall’aiuto diretto alle persone più anziane o vulnerabili, al sostegno psicologico, all’auto-organizzazione in diverse materie, da quella lavorativa, all’abitativa, all’educativa o culturale.
Nel caso delle iniziative anti-repressive invece è clamorosa l’incapacità, di cui parlavo prima, di dare una risposta adeguata all’accelerazione a ritmi mai visti del controllo sociale e della repressione (ad oggi e utilizzando la “legge bavaglio” sono state multate più di 100.000 persone e più di mille sono state arrestate fra gli applausi di un’opinione pubblica che viene esortata dalla destra neofascista alla sinistra di Podemos, ad accettare come positiva la presenza dell’esercito per le strade e di gente in uniforme alle conferenze stampa governative). Mi riferisco anche allo sdoganamento di istituzioni (il monarca in piena rivelazione di scandali di corruzione da parte della famiglia reale si presenta come capo dello Stato e delle forze armate in tuta mimetica) e ai linguaggi militaristi. Per non parlare dell’incapacità di reagire di fronte a indecenze come le minacce rivolte pubblicamente dal Tribunale Supremo ai funzionari che dovevano decidere la scarcerazione e gli arresti domiciliari per – fra gli altri – alcuni prigionieri politici catalani, per motivi di salute pubblica.
Anche qui i limiti delle organizzazioni esistenti dovranno essere superati da pratiche di organizzazione dal basso.