Anche stavolta, le elezioni parlamentari in Israele ci consegnano un quadro non banale, a leggere tra le pieghe dei dati e delle percentuali che, a spoglio ormai (quasi) ultimato, stagliano di fronte ai nostri occhi i nuovi pesi politico-parlamentari delle varie forze in campo.
La parentesi è tuttavia d’obbligo, dal momento che, al momento in cui scriviamo, con il 99% delle schede scrutinate, è ancora in corso la conta dei voti provenienti dai seggi speciali, vale a dire quelli dei militari, dei diplomatici, delle persone in ospedale e del personale ospedaliero, dei detenuti, e, stavolta, anche degli elettori e delle elettrici in quarantena per le conseguenze del contagio da coronavirus, e solo dopo che tutte le schede saranno state scrutinate si passerà alla proclamazione degli eletti, con le nuove date del calendario parlamentare: il giuramento della nuova Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, dovrebbe avvenire entro il 16 marzo e il giorno successivo, il 17 marzo, è l’ultimo giorno utile ai fini del conferimento dell’incarico, da parte del presidente della repubblica, Reuven Rivlin, per la formazione del nuovo governo.
E questo incarico, alla luce dei risultati e a detta di tutti gli osservatori, sarà con ogni probabilità attribuito al presidente del consiglio uscente, leader del Likud e candidato premier del blocco della destra (comprendente diverse formazioni sioniste e ultra-religiose), Benjamin Netanyahu. Con una singolare coincidenza: il 17 marzo è anche la data in cui è in programma la prima udienza del processo che vede proprio Benjamin Netanyahu sul banco degli imputati, accusato con pesanti capi di imputazione che fanno riferimento a tre casi molto dibattuti in Israele.
Nel “caso 1000” Netanyahu è incriminato per frode e abuso di ufficio per “doni” ricevuti da importanti uomini d’affari; nel “caso 2000” per un caso di corruzione, per il quale il premier uscente avrebbe acconsentito a interventi ufficiali a favore di una importante testata giornalistica in Israele in cambio di una più favorevole copertura mediatica; nel “caso 4000”, infine, per avere, secondo l’accusa, favorito una importante società israeliana di comunicazioni all’epoca in cui il premier aveva anche l’interim di Ministro della Comunicazioni.
Fatto sta che, dal novembre scorso, Netanyahu è incriminato per corruzione, frode e abuso d’ufficio; il che, sotto il profilo politico, significa, al tempo stesso, tre cose: che ciò, come spesso succede, non sembra avere influito sul consenso elettorale del candidato; che adesso Israele rischia, per la prima volta nella storia, di avere un presidente del consiglio incriminato con gravi capi di imputazione; che Netanyahu stesso rischia di finire letteralmente sulla graticola, dal momento che non hanno perso tempo le formazioni dell’opposizione politica, a partire dal leader dello schieramento Blu e Bianco, Benny Gantz, per annunciare la presentazione alla Knesset di una proposta di legge con la quale impedire ad un candidato sotto processo con imputazioni gravi di ricoprire la carica di primo ministro. Una questione che fa il paio con quella, politicamente più significativa, di leggere il risultato del voto e di formare una maggioranza parlamentare (61 deputati su 120) in seno alla Knesset.
Se infatti queste elezioni israeliane ci dicono qualcosa sulla composizione del panorama politico israeliano, sui rapporti di forza tra gli aggregati politici e sugli orientamenti politici degli israeliani e delle israeliane, ci dicono esattamente questo: che il Likud rimane la forza più consistente e il baricentro della destra nazionale e religiosa in Israele; che Blu e Bianco conferma sostanzialmente il suo consenso stabilizzandosi come alternativa di centro, in una logica di mera alternanza, e di sostanziale conservazione dello status quo dei fondamentali della politica e della strategia di Israele, al Likud; che, nel quadro di un complessivo orientamento a destra, che si conferma anche stavolta, del quadro politico israeliano, un’altra forza che veramente può dirsi vincitrice di questa tornata elettorale è proprio l’aggregazione della sinistra raccolta nella Lista Congiunta, composta dai partiti Balad (Assise Nazionale Democratica, araba e israeliana, laica e progressista), Ra’am – Ta’al (piattaforma progressista arabo-israeliana) e Hadash (il Fronte Democratico per la Pace e la Uguaglianza, nato dall’unione del Rakah, il Partito Comunista di Israele, e altre formazioni della sinistra).
Con il voto dello scorso 2 Marzo, il Likud (29%) consegue 36 seggi, lo Shas (8%) e il Giudaismo Unito nella Torah (6%) rispettivamente 9 e 7 seggi, Yamina (5%) 6 seggi, portando così il blocco della destra a 58 seggi, tre in meno della maggioranza assoluta richiesta per la formazione di un nuovo governo. Kahol Lavan (Blu Bianco, 27%) si attesta a 33 seggi, Israel Beitenu (6%) a 7 seggi, il Labour (6%) a 7 seggi. La terza forza del panorama politico israeliano è dunque proprio la Lista Congiunta (13%), che conquista 15 seggi. Con due effetti importanti, un incremento del numero delle deputate (che passano da 28 a 30 o 31) e un aumento del numero di deputati e deputate arabi. Anche in Israele, dunque, a sinistra trovano spazio speranze di democrazia e di progresso.