Il debito pubblico dei paesi poveri sta rialzando la testa e fa paura. Stiamo parlando dei paesi con reddito pro capite inferiore a 2.700 dollari all’anno, quelli che il Fondo Monetario definisce LIDC, Low Income Developing Countries. In tutto 59, con una popolazione complessiva di un miliardo e mezzo di persone, il 20% dell’intera popolazione mondiale. In ordine decrescente partiamo dal Buthan, con un reddito procapite, anno 2017, di 2.510 dollari all’anno e arriviamo alla Somalia, con un reddito pro capite inferiore ai 280 dollari all’anno. La conclusione è che il 40% dell’intera popolazione appartenente ai paesi a basso reddito vive con meno di un dollaro e 90 centesimi al giorno, la soglia infernale al di sotto della quale non c’è più traccia di dignità umana. Oltre mezzo miliardo di derelitti concentrati soprattutto in Africa perché 35 dei 59 paesi più poveri si trovano sul suo territorio. E non si tratta solo di nazioni con fragilità ambientale o conflitti in corso. Fra i paesi condannati alla povertà ci sono anche quelli ricchi di petrolio o di minerali come Nigeria, Ciad, Zambia e Repubblica Democratica del Congo.
Le statistiche mettono in evidenza tre aspetti rispetto al debito pubblico dei paesi più poveri: è in crescita, è sempre più caro, espone un numero crescente di paesi a rischio default. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, dal 2012 al 2018 il debito pubblico dei paesi poveri è aumentato mediamente di tredici punti percentuali, passando dal 32 al 45% del loro PIL. Un aumento causato ogni volta da ragioni diverse, anche se solo in pochi casi si può imputare a spese per investimenti, l’unica forma di debito “sano” che crea le premesse per ripagarsi. Una costante che si ritrova in gran parte dei casi è la riduzione delle entrate accompagnata da un aumento delle spese. Più si allarga la forbice fra le due grandezze, più il debito cresce. Per cui è sempre sui due lati della catena che bisogna porre l’attenzione se vogliamo capire i processi di indebitamento.
Sul piano delle entrate il Fondo Monetario rileva che fra il 2013 e il 2019 la media del gettito fiscale dei paesi poveri è rimasta pressoché immutata, attorno al 13% del PIL. Ma come tutte le medie, nasconde il fatto che alcuni sono riusciti ad aumentare il proprio gettito, mentre altri l’hanno visto ridursi. L’aspetto curioso è che a navigare nelle acque peggiori sono stati i paesi fortemente dipendenti dalle materie prime. I paesi produttori di petrolio, ad esempio, sono quelli che registrano le entrate fiscali più basse e che hanno subito le perdite più gravi. Il loro gettito, infatti è passato dal 7% del PIL nel 2014 al 4,5% nel 2019. Tipico il caso della Nigeria, il cui gettito fiscale proviene in larga parte dal petrolio. Le sue entrate fiscali sono passate da 24 miliardi di dollari nel 2013 a 15 miliardi nel 2016 a causa del crollo del prezzo del greggio che nel 2014 si è ridotto del 60%, passando da 114 a 45 dollari al barile. Sorte ancora più drammatica per il Ciad, anch’esso produttore di petrolio, che per la stessa ragione ha dimezzato il proprio gettito fiscale, passato da 2,2 miliardi di dollari nel 2013 a 1,2 miliardi nel 2016. Triste effetto farfalla di una serie di concomitanze internazionali che fra il 2014 e il 2016 fecero crollare non solo il prezzo del greggio, ma anche di molte altre materie prime, gettando nella bufera paesi come Mozambico, Zimbabwe, Niger e vari altri paesi economicamente dipendenti dalle materie prime.
La frenata nelle entrate costrinse molti governi a ridurre anche le spese, ma considerata già la loro inadeguatezza rispetto ai bisogni del paese, giustamente non ci fu proporzionalità. Così crebbe lo scarto fra entrate e uscite dei paesi più poveri; se nel 2014 era mediamente attestato al 5% del loro Pil, nel 2017 lo troviamo all’8%. Una differenza che in prima battuta cercarono di arginare chiedendo aiuto ai governi occidentali. Ma i cordoni dei ricchi si erano fatti più stretti e di soldi sotto forma di donazioni ora ne arrivavano meno. I numeri parlano chiaro: prima del 2014 gli aiuti pubblici ai paesi più poveri viaggiavano su una media di 24 miliardi di dollari all’anno, nel 2017 li troviamo a 18 miliardi di dollari, una riduzione del 25%. Il peggio fu che i governi occidentali erano anche meno disponibili a concedere prestiti e ai paesi poveri non rimase altra scelta se non quella di bussare alla porta della Cina e dei privati. Alcuni analisti collocano i prestiti concessi dalla Cina ai paesi poveri attorno ai 200 miliardi di dollari, circa un quarto dell’intero debito che grava sulle loro spalle.
Ma la Cina non brilla per trasparenza ed è difficile dire se la cifra corrisponda al vero. Si può comunque dire che la Cina concede prestiti attraverso le sue banche di stato, spesso ai tassi di mercato e in cambio di contropartite commerciali. Dunque a condizioni simili a quelle dei soggetti privati che in ogni caso non si presentano come un fronte unico, ma come un mondo variegato formato non solo da banche, ma anche da fondi di investimento e perfino imprese commerciali. Basti dire che nel 2014 il Ciad ottenne un prestito di un miliardo e mezzo di dollari da Glencore, un’impresa commerciale svizzera che accordò il prestito come pagamento anticipato del petrolio che acquistava dal paese.
Quanto al mondo finanziario, il suo coinvolgimento nel debito del Sud si capisce meglio alla luce del quantitative easing, la decisione di molte banche centrali del Nord del mondo di immettere nel sistema economico grandi quantità di moneta fresca per arginare gli effetti della crisi del 2008. Gli economisti stanno ancora discutendo se la misura sia riuscita nel proprio intento, ma di sicuro è stata capace di stuzzicare gli appetiti di molti operatori finanziari, che hanno approfittato di tanto denaro in circolazione per fare il pieno di prestiti a buon mercato e riproporli, a loro volta, a governi e imprese del Sud del mondo a tasso maggiorato.
In definitiva è stato un po’ come tornare agli anni Settanta del secolo scorso, quando i rappresentanti delle grandi banche internazionali facevano il giro delle capitali africane o latino americane per piazzare i petrodollari che inondavano le loro casseforti. E come allora si pagavano mazzette per spingere i ministeri a presentare progetti costosi che avrebbero fatto lievitare i prestiti richiesti, anche oggi sta ricomparendo la grande corruzione internazionale. Un caso clamoroso è quello del Mozambico che si ritiene vittima di una truffa risalente al 2013, quando Ematum, società marittima mozambicana, si accorda con Privinvest, armatore libanese, per l’acquisto di alcuni pescherecci, ricorrendo a prestiti concessi da Credit Suisse e VTB. E per buttare l’operazione sulle spalle del governo mozambicano vengono dati 150 milioni di dollari ad alcuni funzionari governativi affinché producano degli atti che attestano l’impegno del governo a garantire la restituzione dei prestiti che strada facendo hanno raggiunto l’astronomica cifra di 2 miliardi di dollari. Nell’agosto 2019 il governo del Mozambico è ricorso alla magistratura britannica per ottenere l’annullamento degli impegni conseguenti alle garanzie fasulle. L’affare è complicato e il verdetto non è atteso a breve, ma comunque vada a finire, il Fondo Monetario Internazionale annovera la corruzione fra le principali cause di danno finanziario dei paesi del Sud del mondo: la corruzione riduce le entrate fiscali e gonfia le spese, con conseguente aumento del debito che per i poveri è sempre più caro che per i ricchi.
A titolo di confronto da alcuni anni il governo italiano paga interessi inferiori all’1% sui titoli di nuova emissione. Ai paesi poveri sono applicati tassi superiori al 2%, esponendo oltre la metà di loro al rischio default. Lo dimostra il fatto che una quindicina di paesi, secondo i calcoli della Jubilee Campaign, destina agli interessi il 18% delle entrate pubbliche già ridotte all’osso. Soldi tolti alla sanità, alla scuola, alla tutela ambientale, che rendono il mondo sempre più iniquo.