Nel corso del consueto delirio da tastiera che impazza sui social media, mi è capitato più volte di sentir berciare la domanda: “E a Lesbo ? Dove sono le ONG ? Che fanno le ONG?”.
Proverò a improvvisare una risposta, ad uso e consumo dei “Napalm51” de noantri.
Due navi per il soccorso in mare di Mediterranea Saving Humans – la Mar Ionio e la Alex – sono state appena dissequestrate, dopo sette mesi di fermo forzato per entrambe in nome dei decreti Salvini.
“Il veliero Alex, della Ong Mediterranea Saving Humans, tornerà in mare dopo 7 mesi sotto sequestro. Lo annuncia attraverso un comunicato proprio l’organizzazione umanitaria: “Anche la Alex & Co, sequestrata per 7 mesi dopo avere salvato dal mare e dagli aguzzini libici 59 persone tra cui 4 neonati, 11 minori e 4 donne incinte, viene finalmente liberata. Come è stato per Mare Jonio, il Tribunale di Palermo ha riconosciuto che quel sequestro era illegittimo e ha fatto quello che l’attuale governo aveva scelto di non fare. Gli attivisti hanno ricordato che la barca a vela era stata posta sotto sequestro amministrativo “per odio e volontà politica dell’allora Ministro dell’interno“. (Fanpage)
Sette mesi di fermo forzato, mentre la gente continuava a morire, senza poter soccorrere nessuno.
Ora è comprensibile come ci voglia tempo per rimetterle in mare, per le manutenzioni, i controlli, le certificazioni scadute, per riformare gli equipaggi, ripristinare le dotazioni, ecc…
Nel frattempo, giusto per non star con le mani in mano, la bandiera di Mediterranea è andata a sventolare durante l’occupazione del consolato greco di Bologna, per denunciare l’aggressione di polizia, guardia costiera e fascisti greci contro i profughi in fuga (i dettagli su ZeroinCondotta).
Tornando alle navi per il soccorso in mare, la See Watch 3 (ong See Watch) e la Ocean Viking (Msf e Sos Mediterranée), sono state messe recentemente in quarantena rispettivamente nei porti di Messina e Pozzallo, per effetto delle disposizioni del governo italiano legate al coronavirus .
In realtà a bordo delle due navi non sono stati trovati casi di coronavirus.
Peccato che alle navi delle ONG venga riservato un trattamento speciale: “sono state fermate solo le navi delle Ong. Per nessun’altra imbarcazione, turistica, commerciale o mercantile, sono state adottate tali misure.
L’equipaggio della See Watch 3 è ancora a bordo, mentre i 194 migranti soccorsi, tra cui diciannove donne di cui una incinta e trentuno minori, sono stati trasferiti nell’ex caserma Gasbarro. – Quando abbiamo comunicato ai migranti che dovevano fare la quarantena hanno detto: La facciamo per proteggerci dal virus che c’è in Italia?” (Messina Ora).
Quindi, con queste sono quattro le navi per il soccorso in mare attualmente ferme in porto a causa dei provvedimenti (bipartisan) dei governi che si sono avvicendanti nel bel paese nell’ultimo anno.
Ma andiamo sulle isole al centro della attuale crisi.
“Siamo determinati a rimanere a Lesbo e fornire assistenza ai richiedenti asilo intrappolati in condizioni disumane a Moria”. Lo annuncia oggi Medici senza frontiere sul suo profilo Twitter. “Negli ultimi 2 giorni siamo stati costretti a sospendere le attività per l’aumento delle tensioni, ma siamo pronti a riprenderle nei prossimi giorni”, precisa l’organizzazione medico-umanitaria, che nell’isola di Lesbo si occupa dal 2019 di una clinica pediatrica nei pressi del campo di Moria. In questi giorni gli operatori umanitari, volontari e migranti sono stati oggetto di attacchi e aggressioni da parte di gruppi di estrema destra e molti hanno dovuto sospendere temporaneamente le iniziative di solidarietà. Nelle tre isole egee di Lesbo, Samos e Chios sono intrappolati 40.000 migranti, a fronte di una capienza ordinaria di 6.000 posti nei centri.” (Sir Agenzia di informazione)
Poche ore fa è stata incendiata a Lesbo la sede della ONG One Happy Family, un centro diurno che ospitava una scuola e distribuiva 1500 pasti al giorno.
Sempre a Lesbo, le operatrici della ong spagnola Rowing Together curano donne provate dalla fuga e dalle durissime condizioni di vita.
“Noi ginecologhe tra le rifugiate di Moria, tra violenze e aborti spontanei”
Resistenti e con una pazienza infinita: non hanno altra scelta che essere così le donne del campo di Moria, la tendopoli da 20mila persone che sorge ormai da anni tra gli ulivi dell’isola greca di Lesbo. Fuori da uno dei due ingressi di questo centro di identificazione UE, conosciuto per le estreme condizioni di vita, si trova una clinica riservata a loro. “Queste donne hanno perduto la propria casa, la sicurezza, il proprio paese e spesso anche la famiglia: tutto ciò che hanno è il loro corpo, l’unica forma di identità che resta” spiega Isabel Rueda, giovane coordinatrice di Rowing Together (cioè “remare insieme”), una Ong spagnola che gestisce il centro di assistenza ginecologica e di ostetricia. “Diversi problemi medici che vediamo qui, dolori cronici, un ciclo fermo da 7-8 mesi, hanno origine psicologica. A volte non possiamo fare altro che ascoltare quello che hanno da dire. E spiegare alle pazienti che è normale che i problemi dell’anima si ripercuotano sul loro corpo”.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, uno staff di cinque operatori sanitari fornisce cure ginecologiche a una quarantina di donne soprattutto afghane, ma anche siriane e di diversi paesi africani.
L’hot spot di Moria è un posto già abbastanza duro per gli uomini. Per le donne rappresenta un rischio costante, sanitario e di incolumità psico-fisica. “Quando c’è una gravidanza o quando riscontriamo un problema di salute, le prime misure da adottare sono igiene, cibo e sonno adeguati. Qui nessuna delle tre cose è possibile” spiega Isabel Rueda. C’è chi perde il proprio bambino per motivi legati alle condizioni di vita del campo, “almeno un caso di aborto spontaneo alla settimana, perché si dorme in tenda, al freddo e non si mangia come sarebbe necessario. Nel primo trimestre di una gravidanza capita anche in condizioni normali, ma qui accade più di frequente”.
Di norma i parti avvengono nell’ospedale di Mitilene, il capoluogo dell’isola. Già il giorno successivo la neo-mamma è costretta a tornare al campo “anche nei casi di parto cesareo. A volte vediamo infezioni per ferite non cicatrizzate e perché a Moria non è possibile mantenere l’igiene”.
Il sistema ospedaliero sull’isola è in affanno, inadeguato anche per gli stessi abitanti. Rowing Together ha un canale di comunicazione e collaborazione che, però, presenta gravi lacune. “Di solito non viene trascritto nei verbali a quali cure sono state sottoposte le donne, e per noi diventa difficile capirlo”, prosegue la coordinatrice. “Spesso alle pazienti non viene spiegato nulla di quello che succede loro: una donna è tornata qui dopo un aborto spontaneo dicendoci che in ospedale era stata addormentata e al risveglio non le era stato spiegato nulla. Ci ha chiesto se suo figlio stesse bene. Ma il bambino non c’era già più”.
Alle ginecologhe e alle ostetriche della clinica, tutte volontarie, capita anche di vedere i segni della violenza, spesso domestica: “Queste donne vengono qui anche solo per parlare, perché comunque preferiscono rimanere accanto a un marito violento piuttosto che restare da sole e rischiare ancora di più”. Sui corpi delle donne di Moria si rintracciano anche vecchie cicatrici di soprusi avvenuti nei paesi d’origine o durante il viaggio verso l’Europa. Delle aggressioni consumate in Grecia, invece, si occupa un’altra organizzazione che dispone anche di assistenza legale. La sicurezza che manca è, infatti, uno dei drammi più grandi del campo: di notte nessuna donna si azzarda ad andare ai bagni, “camminare tra le tende anche solo per cinque minuti è un rischio”.
Ai pericoli interni alla tendopoli si aggiungono, da un paio di settimane, quelli di veri e propri raid di gruppi di estrema destra greci che scaldano gli animi di una popolazione locale già esasperata, convinta di essere stata abbandonata da Governo e Unione Europea. Scontri e sassaiole, manifestazioni represse in maniera violenta dalla polizia greca, incendi sospetti (l’ultimo, la notte scorsa, ha distrutto la Scuola della Pace della ONG One Happy Family, ma ancora prima era toccato a un campo Acnur nel nord, a un magazzino di stoccaggio a Chios e a diverse auto di volontari di ONG). “Abbiamo chiuso per alcuni giorni la nostra clinica per quello che è accaduto, non ci sentiamo più sicure come prima. Da tre giorni però abbiamo riaperto” prosegue. “Naturalmente anche le abitanti del campo sono a rischio. Venerdì una donna incinta ai primi mesi di gravidanza è arrivata da noi preoccupata: voleva sapere se il suo bambino stesse bene, perché la polizia l’aveva colpita durante un tafferuglio al porto. Aveva segni sul corpo”.
Dolori nuovi si sovrappongono a quelli passati, ma Isabel Rueda garantisce che nelle giornate alla clinica c’è anche posto per sorrisi e qualche risata: “È evidente che c’è un dramma in corso, ma qui vediamo quanto queste donne si danno una mano l’un l’altra. Ciascuna fa del proprio meglio. Sto imparando molto, è difficile da dire, ma in questo campo prendo più di quello che sono venuta a dare”. (Avvenire)
Bene, le ONG sono al loro posto.
I leoni da tastiera pure: dietro la tastiera, al calduccio.
di Alexik