Mantenere la memoria, anche delle stragi in mare, e ribadire in ogni circostanza che il valore della vita rimane lo stesso ovunque, e che ovunque vanno evitate perdite e sofferenze.
Sono giorni nei quali molti riscoprono nel modo più doloroso lo scarto sottile che separa la vita dalla morte. Colpisce soprattutto la solitudine nella quale muoiono persone fino ad un attimo prima inserite in un contesto familiare e sociale. Chi ha lavorato a fianco dei migranti sa da anni cosa significa il dolore della perdita di qualcuno che è costretto a morire in solitudine. Abbiamo accompagnato nel loro ultimo viaggio persone dentro bare segnate soltanto con un numero e aiutato padri e madri a cercare i corpi dei loro figli inghiottiti dal mare. Abbiamo visto i cadaveri dei migranti ricoperti con teli luccicanti sulle nostre spiagge, a poca distanza da chi continuava a fare un bagno.
Non abbiamo mai fatto differenze tra il dolore di chi perde un affetto caro, la tragedia di una separazione definitiva, a seconda del colore della pelle, della nazionalità o della prossimità delle persone. Altri invece hanno fatto finta di non vedere i cadaveri che galleggiavano nel Mediterraneo, i corpi straziati che si ammassavano nei centri di detenzione in Libia, l’orrore delle frontiere che uccidono, come tra la Grecia e la Turchia, le vittime dei centri di detenzione e delle carceri in Italia. Sono gli stessi che di fronte alla tragedia della korte hanno detto per anni: prima gli italiani.
Oggi condividiamo il dolore di tutti coloro che hanno perso familiari e amici in quella che chiamano “guerra”, ma che è una epidemia di cui si intravedono responsabilità e genesi sempre più precise. Ma non possiamo dimenticare che nel Mediterraneo si continua a morire, soprattutto dopo che le navi delle organizzazioni non governative (ONG) sono state costrette ad interrompere le loro missioni di soccorso. Quelle navi che erano state chiamate come un fattore di attrazione, un pull factor, delle partenze dei disperati, sulle quali si è indagato per anni per scoprire inesistenti collusioni con le organizzazioni criminali che continuano a lucrare sul proibizionismo delle frontiere.
Il 9 febbraio di quest’anno, quando ancora l’allarme del COVID-19 non era arrivato ai livelli odierni, nelle acque del Mediterraneo centrale si è consumata l’ennesima strage nascosta, frutto del ritiro dei mezzi navali delle missioni europee FRONTEX ed EUNAVFOR MED e del sostanziale disimpegno delle marine e delle guardie costiere di paesi come l’Italia e Malta che hanno concluso accordi di cooperazione operativa con la sedicente guardia costiera “libica”. Accordi che sono stati messi in dubbio persino dalla Corte di cassazione. Una guardia costiera di un paese che non esiste più, come entità politica e militare unitaria, che ha operato per anni sotto il diretto coordinamento dei vertici delle missioni europee e delle centrali di coordinamento, sotto il controllo dei ministeri dell’interno, italiane e maltesi. Mentre le navi delle ONG hanno salvato oltre centomila persone andando però incontro a denunce e diffamazioni.
Dopo un mese dalla strage del 9 febbraio, sulla quale avevano riferito pochi giornalisti come Sergio Scandura di Radio Radicale, è stata nascosta da tutti i servizi di informazione statali, che pure avevano in attività nella zona del naufragio numerosi assetti aerei e sofisticati sistemi radar, alcuni testimoni e parenti delle vittime hanno permesso ad ALARMPHONE di ricostruire quanto successo e di dare certezza alle circostanze del naufragio. Nessun mezzo della “grande stampa” italiana ha ripreso questa denuncia.
Riteniamo doveroso oggi ricordare quelle vittime ed i loro familiari, molti dei quali neppure sanno che fine hanno fatto i loro figli, in un momento di dolore collettivo nazionale che condividiamo ma che non può essere utilizzato per nascondere tragedie che continuano a ripetersi, e si ripeteranno con frequenza ancora maggiore in futuro, dopo che le ONG hanno annunciato il loro ritiro dalle missioni di soccorso nel Mediterraneo.
L’indifferenza uccide due volte, quando non si segnalano le imbarcazioni in difficoltà per non dovere giustificare il soccorso e l’ingresso nel territorio dello stato di persone soccorse in alto mare mentre erano in procinto di affondare, e quando si nega l’esistenza delle vittime, cancellando la memoria dei fatti, camuffati come attività di contrasto di quella che chiamano immigrazione illegale. Su questo interviene ormai un colpevole silenzio stampa.
E questa indifferenza potrà uccidere ancora di più in futuro, quando per effetto della epidemia e del dolore sconvolgente che ha stravolto l’intera comunità nazionale si rilanceranno le politiche di tolleranza zero e di abbandono in mare. Ma i migranti continueranno a partire, soprattutto avvicinandosi i mesi estivi, comunque e la sorte di molti di loro sarà segnata. La percezione della tragicità della perdita dell’altro dovrebbe spingere ad un sentimento di compassione e di condivisione. E dunque verso il rilancio delle missioni di soccorso in mare.
La diffusa strumentalizzazione politica dell’epidemia da COVID-19 sembra portare in una direzione opposta, con una militarizzazione della vita quotidiana, ed una svolta autoritaria dello stato. Sono oggi imprevedibili gli sviluppi di queste spinte deteriori che inducono al sovranismo, al nazionalismo, ed addirittura al regionalismo. Sono politiche che inducono a dimenticare quanto successo appena fuori dal recinto che ci viene assegnato o del nostro stato-nazione. Per questo occorre almeno mantenere la memoria, anche delle stragi in mare, e ribadire in ogni circostanza che il valore della vita rimane lo stesso ovunque, e che ovunque vanno evitate perdite e sofferenze che diverse scelte politiche potrebbero, se non eliminare, ridurre, restituendo un contenuto effettivo al diritto alla vita.
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