Ho vissuto 10 anni a Barcellona; nei primi anni ogni sabato c’era una manifestazione, ore 18 Plaça Universitat. Sembrava una messa, un rito. Ogni volta un motivo diverso, le persone più o meno le stesse, 400- 500. Io mi aggiravo, curiosavo, chiedevo, conoscevo i diversi gruppi. Un classico nella variegata sinistra.
Milano 25 gennaio ore 16: presidio per la pace in piazza Duomo. 400-500 persone Una settimana dopo, esattamente nello stesso luogo, alla stessa ora: presidio per la Palestina. 400-500 persone.
E sabato prossimo? Va bene. In fondo è come andare in palestra o in piscina una volta alla settimana, ci si tiene in allenamento. A Barcellona qualche anno dopo esplose il movimento degli Indignados e fu primavera, davvero. Quindi andiamo avanti così, Milano…
Ma veniamo a sabato scorso: presidio per la Palestina, per sbertucciare il piano Trump, “Il piano del secolo”, rinominato “la truffa del secolo”. Ultimamente ai cortei per la Palestina c’era sempre qualche screzio, qualche tensione interna, stavolta no. La tensione è univocamente rivolta verso i governi di Israele e Usa. Molte persone, in maggioranza dai paesi arabi, tante bandiere, molti interventi si susseguono al microfono. Ascolto: molta rabbia, convinzione, ma anche lucidità. L’unica pecca: parlano solo uomini. Vedo che dietro i primi cerchi ci sono molte donne, hanno i veli, ma si muovono disinvolte tra telefoni, striscioni che reggono e gran vociare tra loro. Ma soprattutto ci sono parecchi giovani, ragazzi e ragazze, reggono cartelli, foto, sono dei bei volti sorridenti. Mi accorgo che ogni volta che c’è una pausa al microfono partono gli slogan e sono sempre le donne a lanciarli, a gridare con un’enorme forza. Bene, penso. Ma a un certo punto infilano 3-4 interventi al microfono delle ragazze palestinesi, bravissime. Parlano sicure, sciolte, ferme, decise. Una nuova generazione, probabilmente nata o comunque cresciuta qui. Con un piede qua e uno là, non sradicate, ma anzi, con radici sia qui che là. Conoscono lo stato di diritto, sanno cosa vuol dire giustizia e ingiustizia. Una di loro racconta di essere da poco stata a Gaza, con altre giovani, chissà come sono entrate. Fantastiche.
Un bel presidio che guarda al futuro. E anche i vecchi “compagni” (c’è chi ricorda quando Arafat parlò in piazza Duomo davanti a decine di migliaia di persone), apprezzano queste nuove leve e danno l’impressione di sentirsi sollevati, non usurpati. Potranno passare presto il testimone….
Ma Milano è inquieta e così io: corro in piazza Scala. Mi aveva chiamato un amico del Gruppo del Bassini: “Porta il megafono se puoi, Andrea”, corro. Arrivo, ma meno male c’è un impianto anche qui. Sono arrivati camminando dall’assemblea in piazza Baiamonti accompagnati dagli inossidabili Ottoni a Scoppio. In piazza Scala si susseguono vari comitati per il verde di una zona o dell’altra. Per l’aria o l’acqua di questa città, per la tangenziale assurda da fermare (e ci sono riusciti!!), per denunciare i rischi di speculazione in varie aree, per smascherare l’ipocrisia di un sindaco green un giorno alla settimana, a braccetto coi costruttori gli altri sei giorni…. ma soprattutto incapace di coinvolgere DAVVERO la cittadinanza. Qualcuno lancia una campagna: “Svegliamo i milanesi un giorno con una cinquantina di striscioni appesi da un capo all’altro della carreggiata che dicano “MA PERCHè PER SPOSTARE I VOSTRI BEI SEDERONI DOVETE MUOVERE UNA TONNELLATA E MEZZA DI FERRAGLIA?” Tante idee, ma soprattutto l’importanza di ritrovarsi con cause comuni da condividere. L’unione fa la forza, non è una frase fatta e banale. Alle sei e mezza ci si saluta… E’ solo un arrivederci.
Ma non sono ancora contento: ho scoperto durante i presidi, dove gli amici in carne e ossa compensano il fatto di non avere facebook, che stasera al Torchiera si parla di Mapuche e c’è pure il vecchio Rodrigo Andrea Rivas, lo ricordate? Dirigeva Radio Popolare. Va bene, pedalerò fino a lì. Merita.
E vengo soddisfatto. Una serata eccezionale: nella tundra metropolitana, con il freddo che entra nelle ossa e la nebbiolina, intorno al cimitero, una sala scaldata assai a fatica da una vecchia stufa a legna, è strapiena, tutti ad ascoltare, chi seduto su panche scricchiolanti, chi in piedi con un piatto della cena o un bicchiere di vino. Ascoltano un’ora filata l’intervento di una giovane donna cilena della Red Internacional en defensa del Pueblo Mapuche. La lotta di secoli di un popolo indigeno, nel freddo sud del Cile, come dell’Argentina. Dove Benetton fa affari (Sardine lo sapevate?). La repressione che viene da lontano, le lotte di comunità che difendono terre, acque, alberi, coltivazioni. I prigionieri politici, e ora il sovrapporsi di un movimento in Cile che assaggia la repressione vissuta dai Mapuche da sempre. Un governo che si avvicina di molto a quello di Pinochet.
Poi parla Andrea Rivas, sembra che la serata si stia spegnendo, nella sala a fianco iniziano i primi accordi. Il freddo incombe. Invece una donna dal pubblico dice semplicemente: “Volume, non si sente….”. Qui non c’è microfono, Rivas si alza in piedi, alza il tono e le sue parole prendono forza, forma e contenuto vanno a braccetto. L’ingiustizia a livello mondiale è SPAVENTOSA; sciorina alcuni dati che provengono dalle stesse banche, impressionanti. La quantità di denaro che circola nel mondo fa impallidire la sala. Rivas parte dal suo esilio in Italia dal ’73, dal suo cercare un contesto per spiegare i fatti che avvengono localmente. Un crescendo di esempi di lotte che si susseguono nei secoli, di resistenze, di menzogne raccontate dai vincitori. E il nuovo senso che hanno più di prima i popoli indigeni, veri difensori di enormi porzioni di pianeta: preservano se stessi, ma in realtà preservano il pianeta intero. La forza e la speranza di una rivoluzione che avrà da venire e inventare qualcosa che sia ben altro rispetto alle socialdemocrazie che non tengono più. Dopo la presunzione di conquistatori che pretendevano di essere gli unici esseri dotati di anima, la rivincita di chi sosteneva e sostiene che ogni essere vivente ce l’abbia.
La serata rimanda a lunedì sera. Rivas promette di tornare. Si parlerà di indiani di America, dei 44 anni di galera di Leonard Peltier. Al Torchiera, l’ambiente si scalderà con la forza delle parole.
23.30, gli organizzatori del Torchiera sono riusciti a tenere a bada i musici, ma questi non ce la fanno più: parte il concerto.
Pedalo fino a casa, è lunga, ma nel cuore nelle orecchie, negli occhi, sono carico. E sì che il megafono sulla schiena non pesa poco….
A proposito: sapete che gli abitanti che difendono l’area verde di Piazza d’Armi si “ispirano” nelle loro mail agli indiani, scherzando sulla loro resistenza di fronte ai cow boys?
E sapete che l’ottimo documentario di Adonella Marena che potete vedere in rete qui https://www.youtube.com/watch?v=BS6WLg5OK0s , si intitola, “NO TAV, gli indiani di valle”? Come si diceva un tempo: tout de tient.
A proposito, il 6 febbraio alle 9.30 Tribunale di Milano, aula 6 bis terzo piano, a sostenere gli Ottoni a Scoppio e alle 18 sotto il consolato Usa a gridare Free Leonard Peltier. Con gli Ottoni a Scoppio, il cerchio si chiude.