Rina Dirbas ha 36 anni. E’ una delle tante donne palestinesi che subisce violenza quotidiana. Non parliamo della violenza subita in quanto donna ma in quanto “donna palestinese” che vive sotto un’occupazione così feroce che le azioni dei militari occupanti sono spesso catalogabili tra i crimini di guerra e contro l’umanità secondo il diritto internazionale.
Il mondo è pieno di donne picchiate, sfregiate, umiliate, uccise, perché quindi soffermarci su “una” delle tante? Intanto perché il soffermarci su “una” non esclude la nostra attenzione a tutte le altre, ma ora ci fermiamo su Rina Dirbas perché ci interessa il discorso che in Italia sta diventando il leit motiv del momento e cioè combattere l’odio.
Prendiamo il caso di Rina, picchiata selvaggiamente senza motivo dai soldati dello Stato ebraico come avviene quotidianamente ad altre donne e soprattutto a ragazzi e bambini, e lo facciamo per denunciare da questo foglio un incitamento all’odio che siamo convinti vada combattuto.
In Italia la paladina nazionale del rifiuto dell’odio, al momento, è la senatrice Segre ed a lei abbiamo già rivolto, sempre da questo foglio oltre che direttamente, l’invito a dire una parola di condanna nei confronti di quello Stato che la ritiene per definizione sua cittadina semplicemente in quanto ebrea, ma non siamo riusciti ad avere risposta.
Rivolgerci a lei non è stato un capriccio, ma una scelta precisa che poggiava le sue ragioni sulle parole del grande Primo Levi, scampato come lei alla morte nazista: “MAI PIÙ”. Quel “mai più” che per essere tale non può tollerare l’indifferenza. Non avemmo risposta. Successivamente provammo ancora, e come noi provarono anche altri, spinti dalla speranza che una sua parola, in quanto infaticabile testimone della Shoah e della condanna dell’indifferenza, avrebbe aiutato quel faticoso percorso verso il rispetto dei diritti umani che ci riguarda tutti. Non successe niente e la senatrice Segre, incalzata da più persone, alla fine disse che non era un suo problema.
Così, se la condanna dell’odio e dell’indifferenza vale solo per determinate categorie di individui, non abbiamo certo molte speranze nel miglioramento del mondo. L’odio porta odio, e seppure la giovane donna picchiata e sfregiata dai soldati con la stella di Davide perdonasse i suoi aguzzini, la vista del suo viso sfigurato potrebbe muovere l’odio di qualcun altro, un figlio, una figlia, un marito, una madre, a meno che a bloccare questo pericoloso sentimento non arrivi la giustizia.
Ma la giustizia non arriva per grazia divina, e per questo riteniamo necessario far conoscere, denunciare e condannare, tanto gli aguzzini che i loro sostenitori, sia quelli dichiarati che quelli vilmente silenti o, semplicemente, indifferenti. L’indifferenza non solo uccide, ma alimenta il desiderio di vendetta di chi è vittima dell’oppressione e, al tempo stesso, cancella l’autorevolezza del diritto a vantaggio della forza.
E allora denunciamo quanto successo a Rina Dirbas, una storia simile a quella di tante altre donne vittime di regimi fascisti o di Stati che agiscono come tali senza acquisirne la qualifica.
La storia di Rina Dirbas l’abbiamo appresa dal quotidiano Haaretz, la testata progressista israeliana sulla quale scrivono giornalisti critici del regime senza che questo, per fortuna, gli porti nocumento, perché Israele ha una grande intelligenza comunicativa, e questo gli va riconosciuto, quindi un giornale democratico ci sta bene al suo interno, tanto i suoi soldati seguiteranno – impuniti – a uccidere e arrestare arbitrariamente, le sue ruspe seguiteranno ad abbattere le case palestinesi, i suoi cingolati a devastare i raccolti nella Cisgiordania occupata, le colonie illegali seguiteranno a mangiare territorio palestinese e il mondo seguiterà a considerare Israele uno Stato democratico. E infatti, come in ogni Stato democratico, Haaretz viene pubblicato regolarmente nonostante i duri articoli di Gideon Levy e pochi altri, cosa che non avverrebbe in uno Stato palesemente fascista!
Grazie ad Haaretz, dunque, riusciamo a conoscere molte cose e quindi possiamo fare il nostro lavoro mediatico facendole a nostra volta conoscere, tentando di creare consapevolezza e rifiuto reale e non solo parolaio di tutto ciò che è frutto dell’odio, come l’agire degli aguzzini di Rina Dirbas, o che genera l’odio, come l’impotenza di fronte alla violenza di quegli aguzzini.
Il fatto che stiamo per raccontare succedeva circa un mese fa, ma la notizia ci è arrivata ora. Rina tornava a casa e trovava il suo appartamento invaso da numerosi militari israeliani che cercavano di arrestare suo figlio, un ragazzino di 14 anni. Lei aveva cercato di frapporsi spiegando ai soldati che suo figlio era poco più che un bambino e non aveva commesso alcun reato, ma i militari lo accusavano di aver lanciato pietre contro i loro veicoli e quindi era loro intenzione arrestarlo.
Non potendo fare altro e sapendo il trattamento che subiscono i ragazzini quando vengono chiusi nelle camionette militari, questa giovane madre ha insistito per accompagnare il ragazzo. Una volta sulla camionetta ha provato ancora a parlare ai militari ma uno di loro l’ha colpita sul viso col calcio della pistola con tanta violenza che Rina Dirbas ha perso i sensi e si è risvegliata in ospedale dove era stata intanto sottoposta a diversi interventi chirurgici al cranio e al viso.
Appena rimessa in libertà è andata a presentare denuncia contro i militari che l’avevano ridotta in quello stato, ma i poliziotti israeliani hanno cercato di impedirle di denunciare i militari dicendole che a loro avviso era stata colpita da un sasso.
Ora Rina Dirbas dovrà subire altri interventi, forse non avrà neanche i soldi per farlo, ma non sarà certo rimborsata da Israele. Accanto al dolore la rabbia. I soldati le hanno spaccato la testa perché cercava di proteggere un bambino, suo figlio. Le cicatrici le deturpano il viso e, come ci fa sapere Haaretz, passare davanti a uno specchio le provoca crisi di pianto.
Seppure Rina Dirbas si adatterà al nuovo aspetto del suo viso sfigurato, le resterà sempre nell’animo la ferita dovuta a quella rabbia impotente di fronte alla violenza di militari sostenuti dall’assenso o dal silenzio del mondo.
Dirle di non odiare sarebbe un insulto al suo dolore, augurarle di perdonare dopo aver ottenuto giustizia è tutto quel che si può fare in una logica di rispetto della sua persona e di quel “habeas corpus” che ogni Stato democratico, da oltre 400 anni riconosce, ma che Israele non applica ai palestinesi.
Una storia come tante. Neanche la peggiore. Un crimine a “bassa intensità” che si aggiunge a migliaia di reati simili, i quali restano normalmente impuniti. Togliere le condizioni perché si ripetano sarebbe una buona medicina contro l’odio. Ma perché questo accada dovrebbe trovarsi anche una medicina contro l’indifferenza, la vera complice dei crimini del potere ovunque si verifichino, in questo caso dei crimini israeliani.