Quel giorno a Bologna l’aria era rovente, il termometro segnava 40°.
Il sole picchiava impietoso quella mattina, il 2 di agosto 1980.
La stazione era particolarmente popolata di persone, era il primo sabato d’agosto.
C’era chi andava in vacanza, qualcuno tornava. Italiani, tedeschi, giapponesi, spagnoli, francesi, chi stava attraversando la penisola per andare a nord in cerca di un lavoro, qualcuno tornava verso casa dall’estero per una settimana di ferie, c’erano studenti, c’era
chi ci lavorava alla stazione, ferrovieri, tassisti, impiegati, dipendenti del bar e del ristorante della Stazione.
C’era John Andrew, 22 anni, da pochissimo laureato all’Arts Court, di Birmingham in Inghilterra. Assieme alla sua fidanzata Catherine 22 anni, avevano intrapreso un viaggio per l’Europa, senza fissarsi particolari mete. Partiti zaino in spalla, arancione il suo, blu quello di Catherine, con il sacco a pelo, arnesi da campeggio, abiti e una macchina fotografica.
C’era Giuseppe, 18 anni, di Bari con dieci fratelli.Faceva l’elettricista. Stava trascorrendo un periodo di vacanza con il fratello a casa di amici a Rimini dove avevano conosciuto alcune ragazze straniere. La mattina del 2 agosto in auto assieme al fratello e ad un amico avevano accompagnato alla stazione di Bologna le ragazze che dovevano tornare in patria. Parcheggiata l’auto i ragazzi entrarono in stazione e si diressero verso il primo binario dove era in sosta il treno per Basilea. Giuseppe accelerò il passo verso i binari. Il fratello, invece si era attardato ad aspettare un amico.
C’era Katia, 34 anni, nata a Stienta di Rovigo, viveva a Bologna con i genitori, suo marito e i due figli: una ragazzina di 11 anni ed un bambino di 15 mesi. Faceva la ragioniera lavorava in stazione per la Cigar, una società bolognese che si occupava di ristorazione, Katia quella mattina era in ufficio sopra alle sale d’aspetto, insieme a lei le colleghe Euridia, Franca, Mirella, Nilla e Rita.
C’era Iwao, aveva 20 anni, viveva nei pressi di Tokio con i genitori, una sorella e un fratello. Era stato ammesso alla Waseda di Tokio, una delle università più esclusive del Paese dove studiava letteratura giapponese. Un suo grande desiderio era conoscere l’arte, la lingua, le tradizioni italiane. Aveva ottenuto una borsa di studio dal Centro Culturale Italiano a Tokio e il 23 luglio era arrivato a Roma dove era rimasto una settimana trascorsa la quale era partito per Firenze. Il 2 agosto decise di lasciare il capoluogo toscano per raggiungere Bologna. Iwao aveva con sé un diario, su cui appuntava i giorni del suo viaggio in Italia, quel giorno Iwao scrisse: “2 agosto: sono alla stazione di Bologna. Telefono a Teresa ma non c’è. Decido quindi di andare a Venezia. Prendo il treno che parte alle 11:11. Ho preso un cestino da viaggio che ho pagato cinquemila lire. Dentro c’è carne, uova, patate, pane e vino. Mentre scrivo sto mangiando….”
C’era Manuela, 11 anni, di Bologna, aveva superato gli esami di quinta elementare e si preparava ad affrontare le scuole medie. I genitori l’avevano accompagnata in stazione e stavano attendendo il treno che l’avrebbe portata alla colonia estiva di Dobbiaco, in provincia di Bolzano dove avrebbe dovuto trascorrere due settimane di vacanza. Stavano tutti e tre vicino alla sala d’attesa, il padre a un certo punto si allontanò per comprare le sigarette.
C’era Kai, 8 anni, viveva ad Haselhorf in Westfalia ed era venuto in Italia con tutta la famiglia, i suoi genitori e i due fratelli per trascorrere una vacanza al Lido di Pomposa, in provincia di Ferrara. Quel giorno era in stazione con tutta la famiglia perché, arrivati da Ferrara, aspettavano il treno per tornare a casa, in Germania.
Quel giorno c’erano tante persone…. ancora più del solito, perché molti treni erano in ritardo e in tanti, di passaggio nel capoluogo emiliano, dovettero attendere per le coincidenze saltate.
Chi viaggiava cercava un po’ di refrigerio nel bar ristorante, sotto le pensiline, nella sala d’aspetto di prima classe e in quella di seconda.
Fu nella sala di seconda classe che alle 10,12 circa, entrò un uomo con una pesante valigia, l’uomo si guarda intorno, poi vede un piccolo tavolino, una specie di tavolino da caffè attaccato al muro portante rivolto al primo binario, l’uomo si ferma e vi appoggia sopra la pesante valigia, pesantissima, ventitré chilogrammi circa…
Nessuno fece molta attenzione a quest’uomo finora sconosciuto, non lo notò un ragazzino che stava leggendo un fumetto, né una mamma giovanissima che viaggiava con la figlioletta di tre anni, nessuno dei tanti presenti notò quell’uomo che dopo aver poggiato la valigia, dopo qualche minuto, uscì velocemente dalla sala di attesa, “dimenticando” lì quella valigia.
Forse perché sognavano il loro meritato riposo, forse perché indaffarati, forse qualcuno dei presenti lo notò, ma poi non furono più in grado di parlare.
Di certo nessuno di loro si aspettava che alle 10.25 il tetto di quella sala si sollevasse per poi ricadere giù pesantemente, le pareti si dilatassero come sventrate e le strutture in cemento e muratura crollassero giù seppellendo i presenti che attendevano un treno, altri che lavoravano, altri ancora di passaggio.
Per 85 di loro non ci fu scampo.
Fu come un bombardamento aereo in guerra, furono sepolti dalle macerie, raggiunti da schegge, scaraventati lontano dall’onda d’urto.
Perché alle 10.25 quella valigia così pesante, saltò per aria e uccise, ferì, mutilò e distrusse un pezzo intero della stazione che si accasciò su sé stessa.
A rendere così pesante la valigia, il compound B, un esplosivo di tipo militare composto da tritolo e T4, e gelatine.
11 anni prima, in un’altra strage, quella di Milano a Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, Fernando Imposimato, ex magistrato e allora presidente onorario della suprema Corte di Cassazione aveva riferito nel 2015 , riguardo quella prima strage, dell’uso di esplosivo militare proveniente sicuramente dalle nostre basi NATO. E ancora dopo, 5 anni più tardi, nel 28 di maggio del 1974, di nuovo esplosivo di origine militare impiegato nella strage di Piazza della Loggia a Brescia. Tutte e tre le stragi terroriste di stampo fascista, tutte e tre con uso di esplosivo militare, tutte e tre finalizzate a massacrare la popolazione da un lato e dall’altro, a suon di bombe, terrorizzare un popolo intero che chiedeva da anni avanzamento sociale, maggiore democrazia, maggiore equità, più partecipazione alla vita del Paese.
Quella pesante valigia, con cognizione di causa fu piazzata nella sala d’aspetto della stazione di Bologna, messa di proposito sul tavolino a una quarantina di centimetri da terra, e a ridosso del muro portante per potenziarne l’effetto che già di per sé sarebbe stato comunque devastante. Come non fu un caso che fu colpita Bologna, come non lo era stato un caso 6 anni prima la scelta di Piazza della Loggia a Brescia per un’altra strage, e nemmeno casuale fu ancora prima, la scelta della Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana nel 1969, per il primo massacro di una lunga serie seguita.
Per tanti degli allora presenti la vita si arrestò alle 10,25 di quella mattina d’agosto.
Un anno fa, improvvisamente dai fumi della caligine di un passato inquietante, a tratti davvero oscuro, noir, mai compreso né affrontato, ma sempre solo e soltanto subito, spesso volutamente dimenticato perché comunque estremamente doloroso e traumatico, ecco riemergere un fotogramma, un volto un poco sfuocato, ma non abbastanza da non poter essere riconosciuto, e così, 40 anni dopo ritorna in tutta la sua drammaticità, la nostra storia.
Per molti di coloro che quella mattina del 2 agosto 1980 accesero il televisore, si stamparono nella loro memoria immagini, di distruzione, di morte, di terrore, in un Paese che non aveva ancora ben compreso… che credeva di vivere in una forma di pace sociale, bensì era da tempo in guerra. Una guerra non iniziata dal popolo italiano, bensì iniziata da altri da lontano, una guerra mai finita, mai veramente deposta da parte di alcuni.
Il riapparire di quel fotogramma col volto di quell’uomo, un neofascista, che pochi minuti prima dell’esplosione si trova a passare dalla stazione di Bologna, quando non avrebbe dovuto esserci, ci catapulta ancora di nuovo in quel tempo.
Adesso a distanza di 40 anni si riaprirà un processo, molti di coloro che ora sarebbero chiamati a rispondere, sono già deceduti da tempo. Adesso si indaga su un flusso di oltre 5 milioni di dollari che sarebbero partiti dai conti collegati a Licio Gelli e Umberto Ortolani per arrivare a varie organizzazioni terroriste neofasciste.
Licio Gelli,colui che fu riconosciuto persino Console dallo Stato italiano, Licio Gelli dai mille agganci e contatti quelli che “contano” davvero, Licio Gelli con la sua lunga lista della sua Loggia P2, 984 nomi, generali, politici, importanti imprenditori, uomini di Stato, dirigenti, editori; una lista lunga sì, ma che poi a un certo punto, una voce dall’interno, per bocca stessa di un Gran Maestro della massoneria che ha guidato per alcuni anni il Grande Oriente d’Italia, si scopre che questa famosa lista contava non 984 nomi, bensì oltre 3000. Che quelli che veramente contavano di più non sono mai comparsi in questa lista ritrovata nella Villa di Gelli.
Anni dopo la stagione delle stragi, in vena di rivelazioni dette col sorriso beffardo fra i denti, quello proprio di chi rivela qualcosa di cui è molto compiaciuto, Licio Gelli, venerabile gran maestro della Loggia P2, (coinvolto in passato come mandante in vari processi, per quella di Bologna e anche altre stragi, assolto per insufficienza di prove, Licio Gelli coinvolto anche nel golpe di Stato argentino nel 1976, ora morto, nel 2015 a 94 anni) una volta disse ridendo rispondendo a una domanda: “Giulio Andreotti sarebbe stato il vero “padrone” della Loggia P2? Per carità… io avevo la P2, Cossiga la Gladio, e Andreotti l’Anello.“
Per noi che siamo ancora vivi, che siamo sopravvissuti alla stagione delle stragi, e a tutto quello che poi è venuto, per tutto un Paese, con quell’orologio rotto, fermo sulle 10,25 del 2 agosto 1980, è come ci fossimo fermati con la storia.
Una storia che in qualche modo, non è mai veramente andata più avanti da allora, rimasta come prigioniera nella paura, impigliata nelle sconfitte, nei tanti morti, nei tradimenti di ciò che di meglio si credeva, anestetizzata nel tentativo di non voler guardare più quelle lancette che ci riguardano tutti da vicino, di uno Stato che invece di essere amico, dare senso di protezione, aiuto, educazione, spirito d’appartenenza a una comunità, quando vien messo in dubbio, ogni qual volta venga chiesto sempre le medesime cose di allora, di 40 anni fa, avanzamento sociale, maggiore partecipazione, maggiore equità, una migliore redistribuzione delle risorse e delle ricchezze del Paese, rispetto e dignità per le persone, per i lavoratori, da Stato “dormiente” e spesso assente, diventa uno Stato che spaventa, che fa paura, che terrorizza, che intimidisce, che minaccia, che reprime, che punisce, che arresta, che tortura, che svilisce, che nasconde, che storpia la storia oltre alla vita sociale, politica e civile.
Ecco che allora come si fosse in fondo consapevoli di questo, abbiamo preferito addormentarci, perderci ognuno nelle proprie storie, farci anestetizzare, al massimo che ci è concesso, sognare in un sogno di riscatto, ma solo privato e personale; e sopportare tutto, fuorché aprire gli occhi su quelle lancette, su quella storia, la nostra, che in un certo senso si è come fermata 40 anni fa.
40 anni in cui collettivamente parlando si è fatto di tutto, ci siamo affidati a qualsiasi cosa, qualsiasi personaggio “salvifico” mal riponendo la nostra fiducia in qualsiasi miraggio si presentasse all’orizzonte.
40 anni in cui qualsiasi cosa ci è andata bene, nei quali al massimo abbiamo risposto col nostro solito sommesso borbottare, ma in cui abbiamo accettato di tutto, fuorché lottare, fuorché pensare, fuorché guardarla in faccia la nostra storia, e tentare di rimettere insieme almeno i pezzi di quell’orologio rotto, per tentare almeno di farla ripartire da lì, la nostra storia.