“Alla base [di molti] problemi del mondo ci sono delle persone, gruppi di persone in conflitto. Possiamo accusare i crimini, la guerra, le droghe, l’avidità, la povertà, il capitalismo (…) ma la realtà è che i problemi derivano dalle persone1” – scriveva lo psicologo e fisico Arnold Mindell nell’introduzione di “Essere nel Fuoco”.
Che il personale sia politico è già stato detto spesso. D’altra parte il politico, a sua volta, è personale – il pensiero maggioritario si riflette immancabilmente nel modo in cui percepiamo e ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri e le grandi rivoluzioni della nostra epoca riecheggiano nelle vite interiori di ognuno di noi. Sotto quest’ottica possiamo osservare che, come evidenzia lo storico Yuval Noah Harari, fenomeni come il terrorismo sono un “problema politico globale, ma anche un meccanismo psicologico individuale [che] agisce pesantemente sui nervi scoperti delle nostre paure, informando l’immaginario di milioni di esseri umani.” O ancora che “la crisi della democrazia liberale non si gioca solo nei parlamenti e nelle cabine elettorali, ma anche nei neuroni e nelle sinapsi del nostro cervello.”2
La psicologia orientata al processo, nata negli anni ‘70 a cavallo fra Svizzera e Stati Uniti per opera di Arnold Mindell, è una metodologia che unisce il livello psicologico a quello sociale, fornendo numerosi strumenti per lavorare sui conflitti personali, di gruppo e sociali. Giunta in Italia nel 2015, grazie alla Scuola di Arte del Processo e Democrazia Profonda, oggi questa metodologia si sta lentamente diffondendo anche nel nostro paese. Una delle fondatrici della scuola è Genny Carraro.
Parlando dei primi passi della Scuola di Arte del Processo e di Democrazia Profonda Genny racconta: “Io e gli altri co-fondatori avevamo fatto esperienza di questa metodologia all’estero e ci era piaciuta molto perché non dava delle risposte definitive, ma forniva gli strumenti necessari per costruire un percorso individuale e collettivo. Le applicazioni sono vaste – dalla terapia personale, alla cura delle relazioni e delle organizzazioni, fino alla facilitazione del dialogo fra le istituzioni e fra i cittadini o l’elaborazione collettiva di problemi sociali. Sentivamo che si trattava di qualcosa di bello e di importante, perché spesso quello che manca è la capacità di sentirsi, dialogare e creare insieme – appunto – una democrazia più profonda.”
La scuola è partita da questo sogno iniziale, anche grazie al sostegno di docenti di rilievo, alcuni già fondatori di scuole simili nei propri paesi d’origine e molto coinvolti in un’opera di cura dei conflitti in varie aree del mondo e organizzazioni internazionali. In questi anni, un gruppo eterogeneo di studenti – l’età va dai 24 ai 70 anni, coinvolgendo vari ceti sociali, professioni, culture e sensibilità – ha affrontato numerosi temi, a partire da quelli personali, perché “sanare le relazioni fra gli esseri umani, creare una possibilità di vedersi è alla base di qualunque altra cosa che si vada a fare, dall’ambientalismo, all’educazione, al giornalismo etc.”.
Non è mancata tuttavia un’indagine su temi più globali, come il fascismo, l’immigrazione, l’ambiente e la disuguaglianza economica, nel tentativo di guardare nel profondo di questi fenomeni, andando al di là dei pregiudizi e delle semplificazioni al fine di comprendere come sviluppare, passo a passo, un uso più responsabile del potere.
Il potere è uno dei temi cardine della metodologia. Tutti noi, in un ambito o nell’altro godiamo di un certo ammontare di privilegi; perfino i bambini che spesso reputiamo impotenti hanno delle risorse e una plasticità che consentono loro una grande capacità di adattamento.
Una buona salute, una condizione economica stabile, un buon livello di istruzione, ma anche una particolare grinta, fiducia in se stessi o centratura nei momenti di caos sono tutti privilegi, che possono essere usati come fonte di benessere, per noi stessi e per gli altri, oppure renderci ciechi al valore degli altri e farci ripetere, nonostante le buone intenzioni, gli antichi errori che vediamo iscritti nella nostra storia, a partire da quella familiare. Perché come scrivevano David Graeber e David Wengrow3 “la perdita più dolorosa delle libertà umane è cominciata su piccola scala, a livello di relazione fra i sessi, gruppi di età e servitù domestica: il genere di rapporti che esprimono allo stesso tempo la massima intimità e le forme più profonde di violenza strutturale. Se vogliamo davvero capire come diventò accettabile per la prima volta che alcuni trasformassero la ricchezza in potere mentre altri finivano con il sentirsi dire che le loro esigenze e la loro vita non contavano, è qui che dovremmo guardare. Ed è sempre qui che dovrà svolgersi il difficilissimo lavoro di creare una società libera.”
Resta dunque aperta la domanda – come fare un uso responsabile dei propri privilegi? O ancora, come rapportarci al conflitto che emerge da un uso poco attento del privilegio da parte degli altri? Il pensiero di Mindell ci suggerisce che il conflitto possa essere il nostro miglior maestro per affrontare le sfide individuali e collettive a cui siamo chiamati a rispondere. Tutti noi lo temiamo, sentiamo nella pelle il suo potenziale distruttivo e tendiamo ad arginarlo, laddove possibile. Potremmo perfino dire che il nostro peggior conflitto è con il conflitto stesso. Eppure, laddove troviamo il coraggio e il modo per restare nel suo fuoco trasformativo, esprimendo fino in fondo la nostra voce e ascoltando quella altrui, possiamo riemergerne con una rinnovata intimità, con un profondo senso di comunità.
1Mindell Arnold, Essere Nel Fuoco, AnimaMundi Edizioni, 2010
2Harari Yuval Noah, 21 lezioni per il XI secolo, Bompiani, 2018
3Graeber D., Wengrow, D., Hot to change the course of human history (at least, the part that’s already happened), Eurozine https://www.eurozine.com/change-course-human-history/