Esistono nessi sempre più evidenti che legano i cambiamenti climatici con l’economia, le politiche sociali, le guerre, le migrazioni e l’ambiente. C’è da mettere concretamente in discussione un sistema che produce morte, come spiega il nuovo Rapporto sui Diritti Globali (a cui ha contribuito anche Comune), con il sua imponente patrimonio di analisi, dati e storie. “Il domani si cambia a partire dall’oggi e dal qui…”.
Il 17° Rapporto sui Diritti Globali, curato da Associazione Società INformazione Onlus, promosso da CGIL con l’adesione delle maggiori associazioni italiane impegnate sui temi dei diritti e pubblicato da Ediesse (a cui ha collaborato per il terzo anno consecutivo la redazione di Comune*), ha quest’anno un tema centrale: quel diritto al futuro che milioni di giovani, ma anche cittadini di ogni età, stanno reclamando nelle strade di tutto il mondo e che, al contempo, stanno costruendo giorno per giorno, nella capacità di costruire consapevolezza e di esercitare cultura critica e conflitto nel presente.
Un futuro che va garantito e conquistato dalle nuove generazioni, che sono in modo più marcato minacciate dall’evoluzione dei cambiamenti climatici, ancora insufficientemente contrastati, e che perciò va anche cambiato, perché il futuro che si prospetta mantiene caratteristiche di ingiustizia climatica e sociale.
Assieme, non va certo smarrita l’attenzione al presente: il domani si cambia a partire dall’oggi e dal qui, dall’impegno quotidiano contro gli squilibri ecologici, le diseguaglianze, le povertà, la condizione di debolezza economica e di sottrazione di diritti che vivono attualmente i lavoratori e i ceti più esposti. Per questo la questione climatica e ambientale traversa un po’ tutti i capitoli di questo nuovo Rapporto sui diritti globali. Per la sua drammatica centralità e urgenza, ma anche per evidenziare i nessi profondi che esistono tra economia, lavoro, politiche sociali, politiche globali, guerre, migrazioni e ambiente. Intrecci e interdipendenze che il Rapporto indaga, analizza e indica ormai da diciassette anni e che ora trovano nel riscaldamento globale una delle manifestazioni più preoccupanti e distruttive. Da qui anche il titolo esortativo: Cambiare il sistema.
È infatti quella l’urgente posta in gioco che emerge dalle analisi e dai dati contenuti nel volume. Si tratta di mettere concretamente in discussione un sistema che produce morte, destabilizzazione, guerre, diseguaglianze, povertà, devastazione ambientale, per costruire valide e concrete alternative. Ma, di nuovo, anche pratiche nel presente, come quelle che vengono raccontate nel capitolo “In comune”, dedicato a quel mondo in costruzione dal basso che prefigura il possibile.
Nazional-populismo e rischio recessione globale nel 2020
Dai tagli fiscali, alle normative rilassate, alle tariffe, ogni iniziativa economica del presidente degli Stati Uniti Donald Trump si è basata anche nel 2019 su una promessa: far partire un’ondata di investimenti e riportare posti di lavoro che il Paese ha perso a favore dei suoi concorrenti.
I tagli fiscali di Trump hanno stimolato l’economia americana nel 2018. Ma le statistiche del governo e di altre fonti non supportano la tesi sull’efficacia di queste politiche nell’attirare investimenti e posti di lavoro. Quella del taglio delle tasse sul capitale è una strategia, oltre che ingiusta, di cortissimo respiro. La legge fiscale varata nel 2017 ha ridotto l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società al 21% rispetto all’aliquota massima del 35%, e ha rivisto il modo in cui gli Stati Uniti tassano le multinazionali. A metà del 2019 i dati hanno mostrato che questi cambiamenti hanno incoraggiato le multinazionali a trasferire centinaia di miliardi di dollari di profitti, ma solo a fini contabili, attraverso un processo noto come “rimpatrio”. Trump ha citato spesso questi dati come se riflettessero gli investimenti diretti negli Stati Uniti. Ma è un’illusione ottica.
La Cina rallenta
Nel 2019 la crescita economica della Cina è crollata al livello più basso degli ultimi tre decenni, ma non è stata solo colpa della guerra commerciale con gli Stati Uniti. Questa è la tesi di Trump, secondo il quale il calo è direttamente collegato alla volontà delle imprese di tornare, o trasferirsi, negli Stati Uniti. Ma è una tesi falsa. Se è in atto un nuovo processo di delocalizzazione, le imprese americane non cambiano continente, piuttosto si recano nei Paesi della subfornitura dove il costo del lavoro è inferiore ma dove esistono infrastrutture capaci di trasferire le merci prodotte a un costo inferiore sul mercato capace di acquistarle.
Il massiccio pacchetto di stimoli finanziari stanziato nel 2008 dal governo di Pechino per dare una spinta al mercato interno ha trainato la crescita accelerata nel corso dell’ultimo decennio. Una crescita impressionante, ma ha portato alla produzione di 40 trilioni di dollari di debito pubblico, aziendale e familiare che valeva più del 300% del prodotto interno cinese nel marzo 2019. Alla fine dell’estate il debito complessivo cinese valeva il 15% del totale globale. A questa situazione il governo ha reagito inasprendo le norme del sistema finanziario, riducendo drasticamente i prestiti bancari e limitando quelli non regolamentati, anche nel settore bancario ombra. In pratica, ha strozzato il credito, bloccato la domanda, creato le condizioni per una spirale al ribasso.
La crisi è arrivata in Germania
La crescita della zona euro è stata scarsa nel 2019. I diciannove Paesi del blocco valutario sono cresciuti collettivamente dello 0,2% da aprile a giugno. L’Unione Europea, che comprende la zona euro più altri nove Paesi, ha registrato lo stesso tasso. La principale causa di questo notevole rallentamento è stata la Germania che è risultata la più colpita dalla guerra commerciale di Trump contro la Cina, in particolare il suo settore manifatturiero.
Il conflitto sino-americano
Oltre a quello legato alla guerra dei dazi, un altro rischio cui è soggetta l’economia globale riguarda lo scontro strategico tra Stati Uniti e Cina sulla tecnologia, la contesa per il dominio sulle industrie del futuro, a cominciare da 5G, intelligenza artificiale, robotica.
Lo scenario è ulteriormente complicato dal possibile aumento dei prezzi del petrolio e conseguente recessione globale a causa del conflitto tra Stati Uniti e Iran e della sua possibile degenerazione.
Il Green New Deal
La proposta del Green New Deal, presentata con due risoluzioni al Congresso degli Stati Uniti da Alexandria Ocasio-Cortez e da Edward Markey (ma ripresa anche in Europa), ha combinato l’approccio economico di Roosevelt con proposte sulle energie rinnovabili e sull’efficienza delle risorse. Una volta adottata spingerebbe a trasformare tutte le fonti energetiche in rinnovabili e a emissioni zero, compresi gli investimenti in auto elettriche e sistemi ferroviari ad alta velocità. Si immagina così un nuovo sistema fiscale diretto a tassare il carbonio e il suo impatto sociale, un elemento ricorrente nelle politiche progressiste negli ultimi decenni, ma mai realmente applicato con efficacia e sistematicità. Oltre ad aumentare i posti di lavoro finanziati dallo Stato, questa politica si propone di affrontare la povertà puntando a migliorare la condizione delle “comunità vulnerabili” che includono i poveri e le persone svantaggiate. Per ottenere un sostegno supplementare, la risoluzione negli Stati Uniti ha presentato richieste di assistenza sanitaria universale, l’aumento dei salari minimi, la prevenzione dei monopoli attraverso politiche antitrust. In vista delle elezioni presidenziali del 2020, la politica climatica è così diventata uno dei principali temi in una discussione che va oltre i confini degli Stati Uniti e la posizione negazionista di Trump.
Il Green New Deal invoca una “mobilitazione nazionale decennale” i cui obiettivi intrecciano i principi della giustizia sociale con quelli della giustizia climatica, una straordinaria fiducia nel potere della tecnologia e la credenza nella possibilità di un suo uso pubblico e statale, l’idea di una programmazione economica con quella di un rilancio dello Stato sociale (Welfare) su basi molto più estese e radicate.
Il lavoro verde
Un punto importante del Green New Deal americano è la garanzia federale del lavoro [Federal job guarantee], uno dei centri ispiratori per la campagna elettorale presidenziale del 2020 di un’area del Partito Democratico. Tale garanzia potrebbe mettere la gente in condizione di lavorare nella manutenzione delle zone umide o curando gli orti comunitari, fornendo al contempo un’alternativa al lavoro a bassa retribuzione legato alle catene di approvvigionamento ad alta intensità di carbonio. Walmart, per esempio, è il più grande datore di lavoro in 22 Stati statunitensi. Paga un salario-base di undici dollari all’ora. McDonald’s, un altro importante datore di lavoro, impiega uno ogni otto lavoratori e ha sempre resistito agli appelli per istituire un salario minimo da 15 dollari. I posti di lavoro federali garantirebbero invece un simile pagamento, creando un livello salariale nazionale e costringendo le catene di vendita al dettaglio e i fast food ad aumentare i loro salari o a rischiare che i loro dipendenti siano attratti da lavori più retribuiti che migliorano le loro comunità e le rendono più resistenti all’impatto sul clima.
Va poi considerato che l’economia immateriale non è affatto ecocompatibile, lo dimostra la natura altamente energivora dell’economia digitale. Ma certamente si possono trovare nelle nuove tecnologie strumenti per modificare profondamente le economie basate sulle energie fossili.
Secondo una ricerca dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (International Labour Organization, ILO) una transizione concertata verso le energie rinnovabili potrebbe costare fino a 6 milioni di posti di lavoro in tutto il mondo in settori ad alta intensità di carbonio, potrebbe creare 24 milioni di posti di lavoro, o un guadagno netto di 18 milioni, e molto di più della profonda perdita di posti di lavoro che deriverebbe da un cambiamento climatico incontrollato.
Disuguaglianze aggressive
Crescono con un trend continuativo e importante le disuguaglianze di reddito e ricchezza, creando nelle società – quelle europee, sebbene con diverse intensità, e quella italiana – un divario che non solo ostacola ogni proposito di maggiore giustizia sociale, ma minaccia lo stesso sviluppo socio-economico, come riconosciuto dalla stessa grande finanza anche nell’ultimo meeting di Davos. Nel 2018 i più ricchi del mondo (l’1% della popolazione) hanno visto crescere la loro ricchezza di un ulteriore 12%, vale a dire 2,5 miliardi di dollari al giorno (900 miliardi di dollari in un anno), mentre al contempo la ricchezza di cui dispone la metà più povera del globo (3,8 miliardi di umani) è simmetricamente scesa dell’11%.
Le tasse tolte ai ricchi
Tra i tanti problemi, quello delle tassazioni che nel tempo sono andate a favore dei più ricchi (e delle maggiori imprese multinazionali): dati OCSE dicono che solo 4 centesimi per ogni dollaro prelevato dalla fiscalità viene da imposte sulla ricchezza (patrimonio immobiliare, fondiario o di successione), e il sistema è in generale a favore dei percettori di redditi più elevati, che hanno visto diminuire l’imposizione fiscale in molti tra i paesi più ricchi, con una aliquota massima passata dal 62% del 1970 al 38% del 2013. Le grandi multinazionali, poi, si sottraggono all’imposizione fiscale per un ammontare stimato di 7.000 miliardi di dollari e pagano aliquote in continua diminuzione, dal 34% del 2000 al 24% del 2016.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (non proprio una ONG radicale…), un modesto +0,5% di tassazione imposto all’1% più ricco equivarrebbe al costo dell’istruzione per 260 milioni di bambini e alle cure sanitarie per 100 milioni di umani, e non avrebbe conseguenze negative su crescita e sviluppo.
Italia, ascensore bloccato e emergenza minori
A proposito di Italia, gli indicatori europei segnano un trend decisamente negativo che ci colloca in pozione critica nella graduatoria comunitaria. La deprivazione materiale tocca il 10,1%, era il 7,1% nel 2008, ed è il 6,9% nell’Unione, mentre la bassa intensità lavorativa affligge l’11, 8% degli italiani a fronte del 9,3% di tutti gli europei, ed era il 10,4% nel 2008. Dunque, di male in peggio.
Continua a crescere la povertà dei più piccoli, che è una emergenza italiana da decenni, ormai: è povero assoluto il 9,7% delle famiglie con un figlio minore e ben il 19,7% tra quelle con 3 o più figli minori. Quando poi è un solo genitore a prendersi cura dei figli, il dato sale all’11%, con un incremento di 2 punti percentuali nell’ultimo anno. Il trend è tra i più sfavorevoli: sono 1,26 milioni i minori in povertà assoluta, erano 1,20 milioni nel 2017, 52mila minori in più.
L’Italia non è un paese per donne
Nel 2018 l’Italia si posiziona al 70° posto su 149 paesi per quanto riguarda il gender gap complessivo, al di sotto di molti paesi dei continenti africano e asiatico, e molto lontano da molti paesi europei; il crollo nella graduatoria è dovuto soprattutto all’ambito lavoro e opportunità economiche, dove siamo al 118° posto, e se si considera in particolare la parità retributiva, si scivola fino al 126° posto.
Nella graduatoria su 34 paesi OCSE, l’Italia è la quarta per disoccupazione femminile, E quando lavorano, le donne lo fanno con contratti meno favorevoli: il 32,4% (3.164.000 donne) lavora part time a fronte dell’8,5% degli uomini (1.143.000), e questo vuol dire meno salario.
Povertà abitativa. A colpi di sfratti e sgomberi
Decreti sicurezza, sgomberi degli edifici occupati, sfratti: questo il linguaggio che anche nell’anno passato ha continuato ad accompagnare una delle maggiori crisi sociali del nostro paese, quella abitativa, mentre quel fondo sociale che dovrebbe sostenere le famiglie nelle spese per gli affitti ha toccato cifre risibili, 10 milioni di euro per il 2019 ed altri 10 per il 2020. Nemmeno un pannicello caldo.
Reddito di base, tutto il mondo ne parla (e lo sperimenta)
Una delle più importanti esperienze è stata realizzata in Namibia, in Africa, tra il 2008 e il 2009 con l’erogazione mensile di 100 dollari namibiani (circa 13 dollari americani) a 930 residenti di età inferiore ai 60 anni. Dallo studio realizzato a valle, emerse che la soglia di povertà passò dal 76%, al 37%, la disoccupazione dal 60% al 45% con un aumento delle attività economiche e di piccole imprese. I bambini sottopeso passarono dal 42% al 10%. Aumentò l’uso dei servizi sanitari e finalmente si ebbe accesso ai farmaci contro l’HIV.
In Kenya l’organizzazione non governativa Give Directly con un crowdfunding, al quale hanno partecipato anche diversi filantropi delle imprese tecnologiche, ha raccolto circa 30 milioni di dollari per una sperimentazione in 120 villaggi, per i prossimi dodici anni e che vedrà erogare un RdB a oltre 16 mila persone, in maniera incondizionata.
Negli Stati Uniti, la città di Stockton in California, ha avviato nella primavera del 2019 una prima fase sperimentare per le fasce più povere della città. Agli inizi del 2018 in Canada 4000 cittadini hanno ricevuto un RdB di circa 17 mila dollari l’anno a persona. La sperimentazione ha voluto valutare l’effetto sulla salute delle persone, sul benessere generale ma anche sulla produttività.
Dal 2012 al 2013, in India, il più grande sindacato di donne, il SEWA (Self Employment Women Association) e l’UNICEF, lo hanno sperimentato in 20 villaggi rurali in Madhya Pradesh. I risultati hanno spinto il governo indiano ad avviare studi di fattibilità per la sua estensione e il tema è entrato nel dibattito elettorale del 2019. Nel piccolo Stato del Sikkim, intanto, il governo ha avviato un percorso per una sperimentazione su larga scala già dal 2020. Sempre in Asia, in Corea del Sud ha preso il via il progetto Youth Basic Income Program con l’introduzione, nella provincia di Gyeonggi, di un RdB destinato a oltre 170 mila giovani basato sull’erogazione di una speciale moneta che può essere spesa nel circuito commerciale provinciale.
Anche a Marica, in Brasile, dal 2016, viene erogato un RdB attraverso una moneta locale, il Mumbucas, che può essere spesa nei negozi, nei mercati e per i servizi comunali. Destinata a circa 14 mila cittadini, da luglio 2019 coinvolgerà oltre 50 mila persone (su 150 mila residenti). Si tratta di un reddito individuale e incondizionato di circa 130 Reais al mese (circa 31 euro) sostenuto, in parte, dalle royalties dell’estrazione petrolifera.
Tra le altre iniziative assume un ruolo di primo piano quella realizzata in Finlandia dal 2017 al 2018. In questo caso la sperimentazione, promossa dal governo, ha coinvolto 2.000 persone. L’Istituto finlandese per la protezione sociale, Kela, pubblicherà i risultati a fine 2020.
Nel 2018, in Francia, 13 dipartimenti regionali hanno proposto di sperimentarlo a livello locale e nel marzo 2019 la città di Grand-Synthe ha avviato il percorso per introdurlo su scala comunale.
Tuttavia, è l’Alaska il paese al mondo cha ha introdotto un modello di reddito universale e incondizionato riconosciuto anche dalla Costituzione: il Permanent Fund Dividend. Uno schema nato dal dibattito di metà anni Settanta, su come redistribuire la ricchezza generata dall’estrazione di petrolio e, nel 1982, venne realizzato un fondo in cui convogliare parte dei profitti da redistribuire ai cittadini. Si tratta di una somma monetaria, erogata annualmente, destinata a tutti i residenti. Attualmente circa 650.000 persone ricevono un importo che varia in ragione del rendimento del fondo, ma la somma stabilita è uguale per tutti. Dai primi anni del Duemila ha raggiunto la cifra di oltre 2.000 dollari a persona.
Rifugiati: miti, leggende e realtà
Alla fine del 2018 erano 70,8 milioni le donne, i bambini e gli uomini costretti a fuggire a causa di persecuzione, guerra, violenza, violazioni di diritti umani, cambiamenti climatici. Solo un piccolo rivolo di quell’umanità disperata arriva in Italia e in Europa, dove si (stra)parla di “invasione” di migranti; non pochi esponenti politici strumentalizzano la questione di rifugiati e migranti e creano irresponsabilmente allarmismi infondati. In Libano per esempio ci sono 156 rifugiati per ogni mille abitanti autoctoni. In Giordania ci sono 72 rifugiati per ogni mille abitanti autoctoni. In Turchia 45 per ogni mille. La metà dei Paesi con la popolazione di rifugiati più alta rispetto al numero di abitanti autoctoni è nell’Africa subsahariana.
Alla conquista dello spazio
Dopo la terra, i mari e l’aria, non poteva mancare lo spazio nei sogni parabellici di molti governanti. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha annunciato la creazione di un comando generale dello spazio che si chiamerà esercito dell’aria e dello spazio.
Già nel 2018 gli Stati Uniti avevano annunciato la pianificazione di un esercito spaziale entro il 2020: un progetto voluto da Donald Trump per non perdere la sfida con Russia e Cina. Il Segretario della Difesa, Patrick M. Shanahan, ha dichiarato al 35° Simposio sullo Spazio in Colorado che il prossimo conflitto potrebbe essere combattuto proprio al di là dell’atmosfera, tra i satelliti che viaggiano intorno alla terra.
Europa armata: il Fondo europeo per la difesa
Fortress Europe, la Fortezza Europa, continua ad armarsi. Non si tratta solo di «difendere i confini» ma anche di cofinanziare «progetti industriali comuni nel settore della difesa con una dotazione fino a 500 milioni di euro» ai quali vanno aggiunti i 25 milioni di euro per sostenere nel 2019 progetti collaborativi di ricerca nel settore della difesa.
Le armi nucleari americane in Europa
Un documento ufficiale pubblicato «per errore» ha rivelato i siti dove gli Stati Uniti tengono le loro 150 armi nucleari in Europa, Italia compresa. Il Rapporto dell’Assemblea Parlamentare della NATO intitolato A New Era for Nuclear Deterrence? Modernisation, Arms Control and Allied Nuclear Forces elenca i Paesi europei in cui sono presenti bombe nucleari all’idrogeno B61: Belgio, Paesi Bassi, Italia e Turchia. In una prima versione ripresa dalla stampa belga erano indicate anche le località esatte in cui si trovano queste armi: l’aeroporto di Kleine Brogel in Belgio, quello di Büchel in Germania, la base aerea di Volkel nei Paesi Bassi, l’installazione militare di Incirlik in Turchia e, in Italia, gli aeroporti NATO di Aviano in Friuli-Venezia Giulia e di Ghedi, in provincia di Brescia.
Le guerre del futuro, dai robot ai cyber attacks
La sicurezza informatica è diventata materia sempre più strategica nel piano industriale della compagnia italiana per eccellenza in materia di difesa, spazio e sicurezza. Leonardo (ex gruppo Finmeccanica) ha rinnovato il 13 febbraio 2019 per altri 18 mesi la fornitura di servizi di sicurezza informatica alla NATO.
È un contratto che dura ormai da sette anni: in 29 Paesi una squadra di duecento esperti monitora, gestisce e risponde ad attacchi hacker. Sotto l’ombrello delle tecnologie di Leonardo ci sono 75 siti NATO, tra cui il quartier generale di Bruxelles. Intanto, si apre ufficialmente la militarizzazione dello spazio, come annunciato dal segretario generale della NATO all’ultimo summit di Londra. Lo spazio sarà il quinto campo operativo, che si aggiunge a quelli terrestre, marittimo, aereo e ciberspaziale. Lo stesso Trump ha annunciato la costituzione della Forza Spaziale degli Stati uniti con il mandato di «difendere i vitali interessi americani nello spazio, il prossimo campo di combattimento della guerra». Le guerre stellari sono cominciate, come non bastassero le altre, che continuano a insanguinare diverse aree del mondo, a cominciare (o, meglio, a continuare) dal travagliato Medio Oriente.
CO2: una crescita inarrestabile
Mentre gli incendi devastano irrimediabilmente, spesso incontrastate e talvolta dolosamente provocate dagli interessi dell’agribusiness e degli allevamenti intensivi, intere regioni, dall’Amazzonia, alla Siberia, a zone dell’Africa, all’Australia, il 2019 ha segnato un nuovo record nella concentrazione atmosferica di CO2. Secondo i rilevamenti del NOAA (National Oceanic & Atmospheric Administration), i quasi 414 ppm (parti per milione) raggiunti nel giugno 2019 mostrano un netto aumento di 3 ppm dal giugno dell’anno precedente e di ben 26 ppm rispetto allo stesso periodo di dieci anni prima.
Secondo diverse osservazioni e analisi scientifiche, le rilevazioni della temperatura media annuale sulla superficie degli oceani e delle terre emerse, considerata l’ultima decade 2009-2018, è risultata più alta di quasi 1 °C (tra 0,91 °C e 0,96 °C) rispetto alla temperatura media dell’era preindustriale. Sui 18 anni più caldi mai registrati, 17 si ritrovano dopo il 2000. Il 2018 fu registrato come il quarto anno più caldo, dopo il 2016, il 2015 e il 2017. La crescita della temperatura media annuale per le aree europee registrata durante lo stesso periodo (2009-2018) è stata tra 1,6 °C e 1,7 °C rispetto all’epoca precedente alla rivoluzione industriale, che inserisce il decennio tra i più caldi di sempre. Cambiamento climatico e fame: un circuito perverso
Secondo le ultime stime della FAO, il 9,2% della popolazione mondiale (oltre 700 milioni di persone) è stato esposto a livelli insostenibili di insicurezza alimentare nel 2018. A questo dato, già drammatico, si può sommare un addizionale 17,2% della popolazione (cioè ulteriori 1,3 miliardi di persone) che ha avuto esperienze di insicurezza alimentare di moderata intensità, nel senso di insufficiente accesso alle fonti di cibo. Stiamo a questo punto parlando di circa due miliardi di persone, oltre il 26% della popolazione mondiale.
Ecological Armageddon
Persino il mondo imprenditoriale e finanziario, o almeno parte di esso, comincia a porsi la domanda su come poter affrontare quello che viene definito dal Rapporto del World Economic Forum (WEF) sui rischi globali del XXI secolo Ecological Armageddon. Considerato che, secondo la FAO, il 75% del cibo mondiale proviene da soltanto 12 varietà di piante e cinque specie animali e che oramai esiste una possibilità su 20 per ogni decade che avvenga un evento estremo in qualche parte del mondo, con conseguenti vittime e carestie, il rischio dell’inazione è molto alto. Si sta cominciando ad assistere al collasso delle popolazioni di insetti, che diventa critico per la stabilità del sistema alimentare. A questo si affianca, in modo più massiccio, la perdita esponenziale della biodiversità, con le popolazioni di varie specie di vertebrati che sono crollate del 58% dal 1970 al 2012.
Scenari apocalittici che richiedono interventi strutturali che possano contribuire alla diminuzione dei gas climalteranti.
I grandi fondi di investimento stanno cominciando a ritirarsi dalle grandi infrastrutture estrattive. È quello che viene definito “fossil fuels divestment”. Un passo sostanziale è stato compiuto dal Pensions Fund Global, il fondo pensioni del governo norvegese (uno dei più grandi del mondo, con asset per 786 miliardi di dollari), che ha scelto di ritirare ben 13 miliardi di dollari dagli investimenti su combustibili fossili.
Nella morsa delle plastiche
La produzione mondiale di materiali plastici ha raggiunto nel 2017 le 348 milioni di tonnellate, con un incremento di 13 milioni dal 2016. Una tendenza simile si è avuta in Europa (Unione Europea più Norvegia e Svizzera), dove la produzione è passata da 60 milioni di tonnellate nel 2016 a 64,4 nel 2017. Il maggior produttore al mondo è la Cina, che da sola copre il 29%, contribuendo al 50% rappresentato dal continente asiatico. Segue l’Europa con un 18,5% e i Paesi NAFTA che raccolgono un 17,7%.
L’inquinamento da plastica ha oramai raggiunto ogni angolo del pianeta sottoforma di detriti o microparticelle: l’esempio più conosciuto è il Great Pacific Garbage, il più grande accumulo di plastica del pianeta, concentrato in una zona dell’Oceano Pacifico.
Ma non è necessario guardare al Pacifico, per rendersi conto del disastro ambientale che si sta verificando. Il Mediterraneo, mare chiuso per definizione, è tra le principali vittime di una gestione inefficace dei rifiuti: ogni anno, secondo uno studio del WWF Italia, riceve 53 mila tonnellate di residui plastici, gran parte dei quali (il 78% per un totale di oltre 41 mila tonnellate) derivati da attività costiere e dall’impatto del turismo sulle località balneari. Un fenomeno che sembra inarrestabile e che è destinato a quadruplicare entro il 2050 se nessun governo metterà mano alla situazione.
Microplastiche sono state rinvenute persino su un ghiacciaio dello Stelvio, con una quantità di plastica trovata di circa 75 particelle per ogni chilogrammo di sedimento, simile a quella che si potrebbe trovare in fondo ai nostri mari o sulle nostre spiagge.