Da Helodie Fazzalari
Pochi giorni fa ho conosciuto Maria Pailahueque, una donna Mapuche che ha vissuto la sua vita in un campo all’interno di una comunità a sud del Cile, vicino Victoria, per poi trasferirsi a Santiago all’età di 25 anni. Maria mi ha accolta all’interno del suo appartamento a Santiago, mi ha offerto l’Humitas, un tipico piatto cileno, ed ha preparato il Mati, una bevanda tradizionale. Ha iniziato poi a raccontarmi un pò della sua vita, e ciò che ha attirato la mia attenzione è il passaggio dalla quotidianità del ‘campo’ a quella del ‘pueblo’, che ha dovuto affrontare Maria. Questa è la sua storia.
“Io mi chiamo Maria Pailahueque, ho 5 figli, 4 maschi e una femmina. Il mio primo figlio è sposato ed ha 3 bambini. Io sono di Vittoria, sono nata e cresciuta li in comunità. Ho trascorso tutta la mia vita insieme ai miei genitori e a mia nonna, legata in tutto e per tutto alle abitudini e alle tradizioni antiche Mapuche. E’ grazie a lei che oggi sono quel che sono. Da lei ho imparato il valore della famiglia, dell’essere sempre uniti, del saper vivere in comunità come si fa nel campo. Ogni tipo di lavoro o evento lo si svolge sempre insieme. In ogni comunità abbiamo un Lonko, un membro più anziano che ha il ruolo di richiamare a se il gruppo e di seguire i più giovani nella loro crescita. Mi sono sposata a 19 anni ed a 25 sono venuta a Santiago per volontà di mio marito. Sua madre lavorava qui e aveva un campo, così noi venimmo a vivere e a lavorare qui, dove sono cresciuti anche i nostri figli.
E’ da 5 anni che ho divorziato con mio marito, ho dovuto lasciare il campo ed oggi abito in questo piccolo appartamento. Noi donne Mapuche quando ci sposiamo abbiamo il dovere di guidare e prenderci cura dei figli e di nostro marito, ma nella società odierna spesso passa il concetto che la donna Mapuche non ‘fa nulla’. Quest’idea fa si che la donna Mapuche perda la sua autonomia, e questo è successo anche a me. La donna quando vive nel campo ha un’identità ben definita, e deve fare tantissime cose: cucinare, accudire i bambini, mentre l’uomo ha il compito di lavorare nei campi”.
Come si vive nel campo?
“Nel campo si vive tranquilli, gli alimenti sono più sani, la vita è più sana. Ad esempio, in passato si seccavano gli alimenti come la carne, era questo il modo di conservarli in quanto non c’erano i frigoriferi. Oggi se tu provi a seccare al sole gli alimenti, questi marciscono o vengono mangiati dagli insetti. Perché il cibo è pieno di conservanti, non è sano. Quando vivevo nel campo potevamo fare le conserve, seminare, c’era un tempo per tutto. Qui a Santiago è molto difficile vivere senza poter fare questi lavori.
Li avevano tutto, dal mais, ad ogni tipo di frutta, anguria, meloni, non avevamo bisogno di comprare nulla perché la terra ci donava molto. Gli anni poi passano, i figli maggiori vanno via, alcuni territori vengono venduti, i più anziani muoiono e tutto questo piano piano va a perdersi”.
Cos’è la natura per un Mapuche?
“La natura è tutto. Se non c’è acqua non ci potrà essere vita. La terra ci da il cibo e senza cibo non c’è vita. Noi ringraziamo sempre la terra, e non la invochiamo solo quando stiamo male, anche quando stiamo bene facciamo una cerimonia: per averci dato la possibilità di vivere questo tempo, per averci dato i figli, per quest’altro anno donatoci e per gli alimenti ricevuti. Anche quando una persona muore è giusto fare una celebrazione. C’è speranza per tutti, accada quel che accada. La Madre Terra per noi è la vita, dal momento esatto in cui nasciamo. La maggior parte della nostra quotidianità noi viviamo in essa e per essa. Lei ci alimenta, Lei ci guida e ci disseta. Noi preghiamo per Lei e facciamo le nostre ‘Rogative’, sia all’interno della Ruka dove viviamo o in un luogo cerimoniale. Noi chiediamo alla Terra di darci sempre la salute, di proteggere la nostra famiglia, chiediamo alla luna di illuminare le nostre notti, in quanto nel campo non abbiamo elettricità, e chiediamo al sole di far risplendere le nostre giornate. Noi abbiamo rispetto di tutti questi elementi. Prima di entrare in un lago o bagnarci in un fiume, noi chiediamo il permesso all’acqua di quel lago e all’acqua di quel fiume. Questo perché così come ogni persona ha la sua vita e il suo modo di essere, anche ogni luogo ha la sua forma di essere, e per questo va rispettato. Abbiamo anche un albero sacro che si chiama ‘canelo’, vicino al quale preghiamo ed è anche curativo”.
C’è qualcosa, come ad esempio un’abitudine, che non è cambiata nella tua vita, da quanto vivi qui a Santiago?
“Si, mi piace accogliere i miei ospiti, come si faceva nel campo. Qualsiasi persona sia, da qualsiasi posto provenga, ci tengo ad offrirle qualcosa da mangiare e da bere. Noi Mapuche siamo così. Quando vivevo nel campo si offriva dell’acqua con della farina. Questo perché il grano è tutto e dal grano viene tutto. Grazie al grano è possibile fare il pane, che sul tavolo ci deve essere sempre. Non importa quanto sia povero o come sia stato cucinato, basta che il pane ci sia. Servire l’altro è un qualcosa che una persona fa perché ce l’ha dentro. Non si tratta di educazione o di buone maniere, si tratta del modo di essere di una persona. Tutte le cose che si fanno devono partire da dentro ed ognuno di noi deve essere ciò che è, e non ciò che gli altri vogliono che esso sia”.
Qual è il ricordo più grande della tua vita nel campo, che oggi porti con te?
“Sicuramente mia nonna ed i suoi insegnamenti. Ho anche il ricordo di mia madre che ci insegnava come dividere in parti uguali tutto ciò che era presente sul tavolo. Quando si uccideva un animale ad esempio, mia nonna invitava a pranzare con noi suo figlio e tutta la sua famiglia. Nessuno veniva lasciato da parte. Ciò che mi è stato insegnato, come anche ai miei fratelli, è l’unità della famiglia. Anche la preghiera è comunitaria. La nostra religione, in quanto Mapuche, non la pratichiamo andando in chiesa, o in un luogo specifico. Fa eccezione un’incontro della comunità che si tiene ogni 2-3 anni, nel quale ci riuniamo in un luogo per noi sacro. Qui facciamo la nostra cerimonia, nella quale si balla, si canta ed avviene tutto nella nostra lingua, il mapudungun. Ogni famiglia deve allevare un animale, ucciderlo e preporre la carne. Inoltre deve preparare una bevanda tipica Mapuche senza alcool a base di grano cotto e miele. E’ con questa bevanda sacra che noi facciamo la Rogativa.
Quando sei venuta a vivere qui, cos’hai provato? Com’è stato il passaggio dal campo alla città?
“I primi tempi sono stata malissimo, per nulla al mondo volevo rimanere qui. Non riuscivo nemmeno a mangiare. Quando vivi nel campo per una vita hai delle abitudini ben radicate, che qui sono completamente stravolte. Dunque mi è pesato molto. Come prima cosa per l’acqua. L’acqua qui non puoi berla dal rubinetto perché è piena di cloro e fa male. Li l’acqua puoi berla dal fiume ed è buona. Alla fine ci siamo abituati a comprare l’acqua in bottiglia. Un’altra cosa è il modo di cucinare. Al centro della Ruka, nel campo, noi abbiamo un focolare dove cuciniamo. Qui non si può fare un fuoco e si cucina con il gas, di conseguenza il cibo prende un sapore diverso. Anche il clima è stato un problema: al sud è molto più fresco, mentre qui fa davvero caldo ed ho dovuto abituarmi anche a questo. Il passaggio dal campo al ‘popolo’ per me è stato molto brusco, però gli anni passano e la realtà è che sei costretta ad abituarti a quello che la vita ti offre”.
Oggi senti che la tua identità è stata stravolta?
“Io sento di essere Mapuche anche in città. E sento che i miei diritti non sono stati rispettati in passato e non lo sono oggi. Non so quando saranno riconosciuti i nostri diritti e quando terminerà la lotta per la nostra terra. Oggi sembra che le nuove generazioni siano fiere di essere Mapuche e sembra che qualcosa stia cambiando. Però è più una cosa di apparenza che di realtà, perché nel concreto non è stato fatto ancora nulla. Anche in passato i nostri nonni sono morti lottando per la loro terra. Ciò che è cambiato rispetto a molti anni fa è che oggi c’è più comunicazione, quindi se un essere umano viene ucciso, la gente riesce a saperlo con più facilità. Il mio sogno in ogni caso è sempre quello di ritornare a vivere al sud. Attualmente non posso perché mio figlio ha avuto un grave incidente lo scorso anno. Ma noi Mapuche nasciamo al sud, cresciamo nella terra, la terra ci da tutto, in alcuni casi poi andiamo a vivere in città, ma moriamo sempre al sud e ritorniamo alla nostra terra. Si tratta sempre di ritornare da dove si è venuti, li dove sono le nostre radici. Io non mi sono mai abituata a vivere tra ‘il popolo’, sono qui per forze maggiori, non perché è quello che desidero”