L’annuncio che ENI potrà formare docenti sui temi ambientali ha scatenato un putiferio. Giustificato dalle strategie aziendali e dalle tante ombre del big petrolifero.
L’Italia sarà la prima nazione al mondo ad introdurre l’educazione civica ai cambiamenti climatici a scuola. Ma gli insegnanti potranno anche essere formati da ENI, una tra le maggiori società internazionali per produzione di petrolio e gas. Un paradosso tutto italiano, in tempi di Green New Deal e decarbonizzazione. ENI infatti primeggia per esplorazioni e trivellazioni di fonti fossili in 67 paesi del mondo e investe, appena lo 1,88% del proprio fatturato in progetti di sviluppo per le energie rinnovabili (dati 2018).
L’iniziativa per i docenti, frutto di una convenzione con l’Associazione nazionale dei presidi italiani, in collaborazione con la multinazionale, è già partita a Roma, Milano e Bologna. Proseguirà a Cuneo, Palermo, Napoli, Ancona e Bari, in vista del prossimo anno scolastico. Quello nel quale, per volere dell’ex-ministro dell’Istruzione e Università, Lorenzo Fioramonti, educazione ambientale e cambiamenti climatici diventeranno materie di studio obbligatorie (con 33 ore complessive di lezione all’anno).
Diffida da «Legalità per il clima»
Contro il patto ENI-presidi si stanno mobilitando i giuristi del team «Legalità per il clima», guidata da Michele Carducci, professore ordinario di Diritto climatico dell’Università del Salento. Insieme ai legali Raffaele Cesari e Luca Saltalamacchia sta predisponendo, con il sostegno anche dei Teachers for Future italiani, una diffida alla stessa ENI, che verrà indirizzata al Ministero e all’ANP, ispirata alla Convenzione di Aahrus.
«Paradossale che sia proprio l’Eni, con responsabilità non irrilevanti proprio su due dei temi che riguarderanno le attività di insegnamento, (‘cambiamenti climatici’ e ‘territori da bonificare’) ad essere chiamata dai presidi a svolgere un ruolo chiave in questo percorso formativo». Così hanno commentato le maggiori associazioni ambientaliste, Greenpeace, Legambiente e Kyoto club. «A nostro avviso il percorso dovrebbe essere svolto da soggetti terzi, rappresentanti degli interessi collettivi e non di un’azienda privata che fa profitti sfruttando i fossili.
Eni record per produzione di petrolio e fatturato. Ma alle rinnovabili le briciole
Stando all’ultima relazione di Mediobanca, a ottobre 2019, ENI è la principale società italiana per fatturato, con un giro d’affari di 75,8 miliardi nel 2018 (+13% dal 2017). L’incremento deriva proprio dalle speculazioni intorno al petrolio, grazie al rincaro del greggio, salito più del 30%.
«Mentre tutto il mondo parla delle azioni più urgenti di adattamento e di mitigazione al surriscaldamento globale, ENI ha battuto il suo record di produzione – ribadiscono da Legambiente – con 1,9 milioni di barili di petrolio al giorno. Per contro, invece, sulle fonti pulite, la società si è posta come obiettivo una potenza installata di energia elettrica pari a circa 5 GW al 2025. Ma, nel 2018, ha investito, ancora, solo 143 milioni di euro in sviluppo di progetti su fonti rinnovabili ed economia circolare.
Migliorare l’efficienza energetica non è decarbonizzare
Nel frattempo, però, ENI ha ricevuto la votazione A- nella valutazione indipendente del Carbon Disclosure Project Climate Change, come massimo riconoscimento, per essere una delle aziende del settore Oil&Gas con il maggior impegno nelle azioni contro i cambiamenti climatici e ha annunciato di aver «integrato la strategia di decarbonizzazione nel proprio modello di business, sviluppandola in azioni di breve, medio e lungo termine».
Poco o nulla, secondo gli ambientalisti. «Eni, in pratica fa un po’ di efficienza, riduzione emissioni di metano dai pozzi, riduzione dei consumi, ma nell’ambito di un aumento delle attività di estrazione di nuovi fossili. Dov’è la decarbonizzazione?- ribadisce a Valori, Andrea Poggio, responsabile nazionale per la mobilità e gli stili di vita sostenibili di Legambiente.
Trivellazioni in espansione dall’Alaska all’Indonesia
La multinazionale ha, invece, incrementato, nell’ultimo anno, il portafoglio di titoli minerari con l’acquisizione di nuovi 29.300 kmq. Titoli esplorativi distribuiti tra Messico, Libano, Alaska, Indonesia e Marocco. Come è possibile visualizzare nella mappa di Valori.it, realizzata su dati del rapporto Enemy of The Planet di Legambiente, le attività di esplorazione e trivellazione nell’ultimo decennio si sono intensificate, in tutto il mondo.
Dalle coste dell’Algarve in Portogallo e all’Alaska nel circolo polare artico. Dal Golfo del Messico al Venezuela, all’Oceano Indiano tra Indonesia e Australia. Così come nel Mar Caspio kazako e il Mare di Barents, al largo della Norvegia. Nelle acque di fronte alle coste africane del Ghana, dell’Angola, della Repubblica Democratica del Congo, del Mozambico. E nel Mediterraneo, con perforazioni e nuovi progetti che interessano in Italia, sostenuti anche dalle agevolazioni alle fonti fossili, rimaste nella legge di Bilancio 2020.
I problemi ambientali e guai giudiziari di ENI
Le attività legate alle estrazioni dei combustibili fossili hanno, però, delle criticità che non sono legate solo ai cambiamenti climatici. Sono diverse le vertenze giudiziarie e le proteste contro progetti e impianti di Eni in Italia e nel resto del mondo, descritti nel dossier ENEMY. A partire dalla recente multa milionaria che l’Antitrust ha inflitto alla multinazionale per pubblicità ingannevole sul «green diesel».
Senza dimenticare il disastro ambientale in Val d’Agri, in Basilicata dove, negli anni ‘90 è iniziato lo sfruttamento di uno dei giacimenti onshore più importanti d’Europa. Attualmente è in corso a Potenza il processo sullo smaltimento illegale di rifiuti, in parte attraverso la reimmissione di acque di processo in alcuni pozzi in Val d’Agri. Mentre nell’aprile 2019, nell’ambito dell’inchiesta su una fuoriuscita dai serbatoi di 400 tonnellate di petrolio, è stato arrestato un dirigente dell’Eni. Le accuse sono di disastro ambientale, abuso d’ufficio e falso ideologico.
Il processo a Gela, gli sversamenti a Ragusa
Eni è sotto processo anche a Gela, per disastro ambientale causato dalla presenza della raffineria, oggi in via di riconversione a olio di palma. Secondo le accuse della procura, più volte avvalorate da analisi epidemiologiche di rilievo nazionale, il ciclo produttivo di Eni avrebbe influito sulla salute dei cittadini.
A partire dallo scorso aprile a Ragusa, nel silenzio mediatico nazionale, è in atto invece una fuoriuscita di petrolio dal pozzo Eni, con il rischio di riversamento nel torrente Moncillè e nel fiume Irminio. Eni è intervenuta, in seguito alla richiesta della prefettura, con barriere di contenimento e tecniche per la pulizia dei bacini. Ma, come conferma a Valori Nadia Tumino, presidente di Legambiente Ragusa, «la fuoriuscita di petrolio continua e la collina percola e trasuda petrolio a tutt’oggi». Tanto che Legambiente ha presentato un esposto alla procura di Ragusa per chiedere l’applicazione della legge sugli ecoreati.
I danni delle trivelle nel Mediterraneo
Nelle profondità marine, a circa 12 miglia dalla costa tra Scicli e Pozzallo nel canale di Sicilia, attorno a Vega, la più grande piattaforma petrolifera fissa realizzata nel mare italiano, c’è stato un enorme sversamento. Le stime di danni ambientali calcolate dal Ministero dell’Ambiente ammontano in 69 milioni di euro. Sono centinaia di migliaia i metri cubi di rifiuti petroliferi altamente inquinanti finiti a 2.800 metri di profondità.
Nel 2012 Edison ed Eni hanno presentato il progetto di costruzione della piattaforma Vega B. Successivamente un’istanza per integrare, con otto pozzi addizionali, quattro precedentemente autorizzati ma mai realizzati. La richiesta delle due società è stata definitivamente bocciata dal ministero dell’Ambiente lo scorso aprile.
Le vicende internazionali dalla Nigeria all’Ecuador
Sulle attività di Eni e Shell in Nigeria grava il processo, per la presunta maxi tangente, versata a pubblici ufficiali e politici nigeriani, per lo sfruttamento del giacimento petrolifero Opl 245. E, sottolineano da Legambiente, proprio nello Stato africano, la comunità di Ikebiri abbia portato la compagnia in tribunale per disastro ambientale. Ottenendo due milioni di euro di risarcimento e la bonifica dell’area inquinata dalla rottura di un oleodotto della controllata Nigerian Agip Oil Company.
Vicenda analoga in Ecuador: la Corte provinciale di Pastaza ha dato ragione al popolo Waorani, impegnato a proteggere 200mila ettari di foresta pluviale amazzonica. I giudici hanno, infatti, annullato il processo intrapreso dal governo ecuadoriano nel 2012, che prevedeva la vendita all’asta delle terre dei Waorani alle compagnie petrolifere. Bloccando la vendita, già organizzata, di 16 zone ricche di petrolio, che coprono oltre 7 milioni di acri di territorio indigeno dell’Amazzonia ecuadoriana.
Eni contestata in Montenegro e Kazakistan
Dal 2016 varie organizzazioni montenegrine, insieme alla Coalizione One Adriatic, protestano contro Eni, la russa Novatek e il governo del Montenegro. Oggetto del contendere la concessione, a 30 anni, di un’area di 1.228 kmq destinata alla ricerca e all’estrazione di idrocarburi. Mentre in Kazakistan, dal 2003, un’intera comunità sta cercando di ottenere il trasferimento in un luogo più sano e sicuro. Richiesta di risarcimento per i danni ambientali e alla salute provocati dalle attività petrolifere.
È il caso del villaggio di Berezovka, situato a 5 km dal giacimento di petrolio e gas di Karachaganak. Studi indipendenti, contestati dalla Karachaganak Petroleum Operating (KPO) di cui Eni fa parte, hanno dimostrato, come molti dei problemi di salute della popolazione siano legati alla qualità dell’aria e dell’acqua, risultata non potabile. La KPO, intanto, è già multata per 737 milioni di dollari dalle autorità del Kazakistan.
Rosy Battaglia