Significativo il risultato delle elezioni presidenziali in Croazia, non tanto per l’aspetto in sé di un risultato pur a sorpresa, che vede la presidenza della repubblica passare di mano dai nazionalisti ai socialdemocratici, quanto soprattutto per alcuni contenuti politici che sono emersi, contenuti che, intanto, hanno punteggiato a più riprese i diversi momenti della lunga campagna elettorale, e quindi stanno entrando come argomenti stabili nel discorso politico croato. Partiamo, come si conviene, dai risultati: si è detto di un «risultato a sorpresa» dal momento che, dopo un primo turno la cui vera, inquietante, sorpresa era stata l’affermazione del populista ultra-nazionalista Miroslav Škoro (un fuoriuscito, addirittura, da destra dall’HDZ), con oltre il 24% dei consensi, il secondo turno si è chiuso, domenica scorsa, con la vittoria di misura di Zoran Milanović (SDP, il Partito Socialdemocratico Croato), con il 52.6%, contro la presidentessa uscente, Kolinda Grabar-Kitarović (HDZ, l’Unione Democratica Croata, o Comunità Democratica Croata), con poco meno del 48%.
Un risultato a sorpresa in cui, nella filigrana dei contenuti che hanno riempito le manifestazioni elettorali, si coglie l’«impasto di vecchio e nuovo» che sembra sempre più caratterizzare il tenore della vita politica nel Paese. In effetti, la presidentessa uscente è giunta piuttosto in affanno all’ultimo miglio della campagna elettorale, circondata da polemiche, dalle continue critiche delle opposizioni sul sistema di potere da lei costruito, dalle perplessità – per usare un eufemismo – suscitate da sue, non poche, improvvide o estemporanee pubbliche dichiarazioni, per alcune delle quali, peraltro, si conserva purtroppo memoria, come quando (notizia riportata dalla stampa ma poi smentita ufficialmente) avrebbe definito la Bosnia come un Paese dominato dall’Islam militante che ne detta l’agenda politica, i migranti (anche questa affermazione poi smentita ufficialmente) come incapaci di integrarsi, o come quando, circostanza riportata da Ahmed Burić, in Canada, «si è fatta fotografare con alcuni membri della diaspora croata che tengono in mano un ritratto di Ante Pavelić, fondatore dello Stato Indipendente di Croazia, stato fantoccio filo-fascista esistito durante la Seconda Guerra Mondiale». Una memoria storica che, purtroppo, troppe volte riemerge.
Polemiche e scandali che non hanno mancato, ovviamente, di fornire un propellente alla campagna dei socialdemocratici, al punto che, al di là delle smentite di questa o quella dichiarazione, lo stesso Zoran Milanović, nella manifestazione di chiusura della sua campagna, a Pola, la ha definita come una persona incapace di controllarsi e che «racconta tutto ciò che le viene in mente». E poi, ha accusato l’HDZ di avere costruito un vero e proprio sistema di potere nel Paese; ha alluso ai rapporti della presidentessa uscente con i servizi e i poteri dello Stato; ha accusato l’HDZ e il suo sistema di potere di tutti i mali della Croazia, «privatizzazioni sfrenate, rapina, immoralità»; ha ricordato che la guerra, in Croazia, è finita da tempo, ma, al tempo stesso, assicurato che non permetterà a nessuno di avanzare pretese contro la Croazia; ha promesso, infine, una «Croazia aperta», attiva più nell’Unione Europea che nel Gruppo di Visegrad, il quartetto dei Paesi dell’Est (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) con atteggiamento ben più «sovranista» che «comunitario». Questi temi, rapidamente tratteggiati, sospingono dunque la riflessione verso il vero messaggio che sembra scaturire da queste elezioni croate, quell’impasto di vecchio e nuovo di cui si diceva all’inizio e quei contenuti che, da questo impasto, vengono a permeare il dibattito pubblico nel Paese.
Sbaglierebbe, infatti, chi immaginasse che la vittoria elettorale dei socialdemocratici possa rappresentare una «svolta a sinistra» per il Paese: i contenuti della campagna annunciano infatti una presa di distanza dal nazionalismo populista dell’HDZ, da certi atteggiamenti populisti e trumpiani dell’ex presidentessa, un approccio più sereno nei confronti dell’Unione Europea e delle politiche comunitarie (tanto più nel momento in cui, dallo scorso 1 gennaio, la Croazia ha assunto, per sei mesi, la presidenza di turno dell’Unione Europea); ma sembrano confermare, al tempo stesso, i fondamentali della politica croata e un ritorno in una nuova chiave del ricorrente nazionalismo che caratterizza diversi aspetti della società e della vita pubblica del Paese. È vero che il tentativo della Grabar-Kitarović di spostare ancora più a destra la sua campagna, per attrarre a sé parte dell’elettorato dell’ultra-destra, non ha avuto successo; ma è altrettanto vero che Milanović ha a sua volta sottolineato il carattere moderato della sua proposta, puntando proprio all’elettorato moderato di destra, meno incline ad un ulteriore slittamento a destra della politica croata. Un nuovo nazionalismo capace di mescolare elementi di modernità e di tradizione che, tradotto, rischia di significare un «grande centro conservatore» emergente come asse del confronto politico in Croazia.
Segnali positivi vanno però emergendo nelle città: qui, a differenza delle campagne, in primo luogo a Zagabria, Split, Osijek, la socialdemocrazia si è affermata in maniera più convincente; ancora nelle città, specie nella capitale, esperienze di sinistra si vanno consolidando, come con il «Blocco di Sinistra» che conta quattro consiglieri a Zagabria, o con le forze socialiste impegnate nell’alternativa per il «socialismo per il XXI secolo».