Questa sera al Centro Studi Sereno Regis di Torino si è tenuta una conferenza organizzata da Un Ponte Per in cui Ismael Dawood e Mohamed Wisam Ambrosini hanno parlato dell’attuale situazione irachena.
Lo scenario di fondo in estrema sintesi:
in quella area si fronteggiano due disegni egemonici basati sulla religione islamica: uno sunnita, del quale il principale attore è l’Arabia Saudita, che ha portato alla nascita di Daesh e alla costituzione di cellule terroristiche che agiscono principalmente negli stati musulmani dell’Africa e dell’Asia.
Un altro sciita, del quale il principale attore è l’Iran, che lo porta avanti con attività di intelligence e il finanziamento, l’addestramento e la fornitura d’armi a milizie sciite che agiscono nella maggior parte degli stati del medio oriente, in Yemen e in Afghanistan. Il culmine di questa contesa tra sciiti e sunniti è la guerra “per procura” che Iran e Arabia Saudita stanno combattendo in Yemen.
La situazione attuale dell’Iraq:
dopo il 2003, l’Iraq praticamente non è più uno “Stato”, l’identità nazionale è stata disgregata e le infrastrutture rase al suolo dall’occupazione degli USA. Ecco perché erroneamente si tende a pensare che gli iracheni, nella situazione attuale, rimpiangano Saddam Hussein. Non è così, o meglio non lo è innanzitutto per i manifestanti di piazza Tahrir, il rimpianto c’è, ma è per uno Stato, che non c’è più, nel quale molti iracheni non riescono più a riconoscersi, proprio a causa della sua disgregazione.
I fatti:
in Iraq, dall’inizio di ottobre, gli attivisti per il clima e i diritti umani (ormai gli attivisti di tutto il mondo ben sanno che giustizia climatica e giustizia sociale sono due realtà completamente interdipendenti) scendono in piazza accusando il governo di corruzione e chiedendo sostanzialmente una democrazia compiuta e trasparente. Le proteste si diffondono nelle piazze principali di 10 province irachene su 18.
L’Iran e le milizie sciite filo-iraniane, vengono individuati come uno dei principali problemi per lo sviluppo di una reale democrazia, il 27 novembre a Najaf durante le proteste davanti al consolato iraniano, a causa del modo violento nel quale le milizie filo-iraniane tentano di contenere la protesta, l’esasperazione dei manifestanti culmina con lo sfondamento dei cordoni militari a protezione del consolato dell’Iran e danno fuoco ai locali interni, bruciando foto di Khamenei.
Il 31 dicembre altri manifestanti (non gli attivisti di piazza Tahrir) insieme a milizie sciite filo-iraniane, attaccano l’ambasciata americana. Dopo questo episodio avviene l’attacco missilistico USA che ucciderà, l’8 gennaio proprio a Baghdad, Qassem Soleimani, generale iraniano capo del Quds, che arma addestra e finanzia le milizie sciite irachene, e tra gli altri, Shibl al-Zaidi, uno dei capi di Hashad al-Shaabi (milizia filo-iraniana).
A quel punto gli attivisti stigmatizzano con forza l’evento, manifestando grandissima preoccupazione per le affermazioni di Trump e per una possibile guerra, continuando a scendere il piazza, a questo punto anche esplicitamente contro gli USA.
Il 24 gennaio sempre altri manifestanti facenti capo a Muqtada al-Sadr, sciita, leader religioso e capo del Sadrist Movement, partito che contava 32 membri nel parlamento iracheno, scendono in piazza, ma non a fianco degli attivisti di piazza Tahrir, il 24 gennaio ci sono state 2 “piazze”: piazza Tahrir e la manifestazione degli aderenti al partito di al-Sadr, partecipata anche dai miliziani, che inneggiavano contro gli USA.
Fonti ufficiali irachene riferiscono che in circa 4 mesi di proteste ci sono 600 morti, 20.000 feriti e numerosissimi arresti tra gli attivisti e manifestanti.
Le istanze di piazza Tahrir, e degli attivisti collegati, nella altre piazze irachene:
“libertà” (democrazia n.d.r.), una nuova legge elettorale, un sostanziale cambio di assetto parlamentare, non più basato su un sistema che per certi versi ricorda quello libanese, quello iracheno è suddiviso con quote in base alle etnie (sunniti, sciiti, curdi), invece che in base alle appartenenze religiose, una magistratura trasparente e non corrotta. Si tratta per lo più di manifestazioni non violente. La reale novità di queste manifestazioni, è che hanno un respiro internazionale, gli attivisti iracheni si sentono uniti agli attivisti libanesi. Sono addirittura in contatto con attivisti iraniani e questo è un aspetto davvero nuovo, l’ostilità tra le popolazioni dei due paesi dopo la guerra è palpabile, i manifestanti l’hanno superata in nome di ideali superiori, questo è un segnale davvero molto incoraggiante. La piazza per ora non ha espresso un leader al proprio interno e non sta appoggiando nessun politico, si limita a far pressione, enunciando delle linee di principio che dovrebbero guidare il governo e le istituzioni.
Un altro aspetto che mi pare importantissimo: le manifestazioni esprimono una posizione laica, la religione è considerata un sentire personale, non influenza le istanze.
Dopo le proteste gli attivisti vanno a pulire le strade.
Una così forte spinta democratica, in un contesto di consapevolezza internazionale, dove i manifestanti si confrontano con le istanze libanesi, iraniane, sudamericane, di Hong Kong, facendo proprie le istanze sul clima e sulla giustizia sociale, va assolutamente sostenuta. Non possiamo e non dobbiamo lasciarli soli, non possiamo lasciare che 600 persone siano morte inutilmente chiedendo libertà, democrazia, giustizia sociale e climatica.