All’indomani della Prima Guerra Mondiale con il disfacimento dell’Impero Ottomano le potenze europee si accordarono tra loro sul modo in cui spartirsi i territori dell’Impero Ottomano e sulla forma da dare agli Stati sorti dalle sue ceneri, senza però la benché minima consultazione delle popolazioni e delle élite locali…
Il termine Medio Oriente apparve per la prima volta nel 1902, coniato da uno specialista navale statunitense, Alfred Thayer. Propose questa nuova espressione per la regione compresa in un immaginario triangolo tra l’India a Est, l’Arabia a Sud Ovest, e la Turchia a Nord Ovest.
“In questi territori non c’era un’idea coerente di Stato nazionale. Gli ottomani avevano identificato il nazionalismo come la più grave minaccia per l’impero – dopotutto era stata la forza che aveva fatto esplodere i Balcani sottraendoli a Costantinopoli. Nei territori arabi questo significò che le discussioni sulla questione nazionale furono immediatamente soppresse, spingendo alla clandestinità o all’esilio in Egitto, a Parigi o nelle Americhe chi ne volesse parlare liberamente. Gli arabi stavano solo incominciando a discutere le proprie idee di nazione e di nazionalismo quando all’orizzonte balenò la possibilità del crollo dell’impero ottomano, dopo quattro secoli un’eventualità considerata inimmaginabile. È solo nell’ottobre-novembre 1918, quando gli ottomani si ritirarono dal mondo arabo, che gli arabi politicamente attivi iniziarono a discutere il loro destino e come declinare lo slancio wilsoniano per l’autodeterminazione. Ma era troppo tardi. Francia, Russia e Gran Bretagna avevano già stretto accordi di spartizione dell’impero ottomano, a partire dal patto di Costantinopoli del 1915 con cui la Russia reclamava il Bosforo e i Dardanelli, lasciando alla Francia i territori siriani e alla Gran Bretagna il diritto di decidere in futuro cosa riservarsi. Così gli arabi si trovarono di fronte una soluzione imposta dall’esterno. Quello che sappiamo dei dibattiti dell’epoca è che molte organizzazioni cercarono di mandare delegazioni alla conferenza di pace di Versailles. C’era chi progettava uno Stato mesopotamico con Baghdad e Bassora e chi ne invocava un altro nel bilād al-Šām, la grande Siria. Dopo la ‘rivolta araba’, molti volevano fare della Siria un regno, con a capo Faysal della dinastia hascemita. C’erano le comunità raccolte attorno al Monte Libano che puntavano sulla loro relazione speciale con la Francia per creare uno Stato cristiano e furono molto attive nell’attività di lobbying a Versailles. Infine c’erano i sauditi che stavano costruendo autonomamente il loro Stato a suon di conquiste. Se gli arabi fossero stati consultati, la mappa del Medio Oriente sarebbe stata molto diversa.” Così Eugene Rogan, professore di Storia del Medio Oriente moderno al St Antony’s College, descrive come fu gestita un’area composta da decine di popoli e da svariate etnie.
“Britannici e francesi furono colonizzatori molto tenaci, – prosegue Rogan – opposero resistenza alle forze nazionaliste con ogni strumento – politico, militare, diplomatico – ed è solo nel secondo dopoguerra, con gli imperi ormai molto indeboliti, che le regioni mediorientali furono in grado di raggiungere l’indipendenza. Ma le élite nazionaliste che avevano guidato la lotta per l’indipendenza, molte delle quali istruite in Europa, erano ormai compromesse dal precedente fallimento nel negoziare la libertà. Quando un’ondata rivoluzionaria spazzò la regione, queste élite furono rimpiazzate da militari e tecnocrati. Ed è questo il Medio Oriente con cui facciamo i conti oggi.”
E’ proprio in virtù dell’accordo del 1915, che dava diritto ai britannici di poter decidere in seguito che cosa riservarsi, che furono gettate le basi dello Stato d’Israele. “Il sogno sionista” – prosegue Eugene Rogan – è diventato realtà soltanto grazie all’intervento britannico. Di tutti i movimenti nazionalisti che parteciparono alla conferenza di pace di Parigi, i sionisti erano quelli con meno chances di farcela. Perseguivano un’agenda nazionalista in un territorio in cui non avevano presa demografica. Le popolazioni ebraiche della Palestina prima del 1917 erano molto inferiori al 10%: non era realistico creare una realtà nazionale in una situazione simile. Era possibile solo con una massiccia immigrazione. E una simile immigrazione può essere tollerata solo grazie al supporto di una grande potenza: senza l’intervento britannico in nessun modo i sionisti sarebbero stati in grado di persuadere la popolazione locale ad accettare l’enorme afflusso di popolazione, tale non solo da creare una nazione ma uno Stato. Non ho dubbi che senza la dichiarazione di Balfour non ci sarebbe stato uno Stato ebraico in Palestina.” conclude Rogan nella sua descrizione storica di come si sia formato l’attuale scenario geopolitico del Medio Oriente.
Un altro esempio della disastrosa pratica tutta occidentale che, senza la minima consultazione delle popolazioni e delle élite locali, decise di dare o non dare vita a degli Stati sorti dalle ceneri dell’impero ottomano, è il fatto che non sia mai nato uno Stato curdo, nonostante che già alla fine del conflitto i curdi fossero stati identificati come gruppo nazionale. Il trattato di Sèvres prevedeva la creazione di uno Stato curdo, ma rimase solo sulla carta. Disattendendo le aspirazioni nazionaliste curde si innescò il processo a causa del quale assistiamo a periodiche ribellioni, insurrezioni del popolo curdo, che conta 46 milioni di persone distribuite in varie nazioni, a cui poi seguono violenze e repressioni di Stato come quelle perpetrate in passato sui curdi in Iran e in Iraq e quelle di adesso mosse da Erdogan in Turchia e nei territori del Rojava.
Un vasto territorio dove, con questi presupposti, invece dell’affermarsi della legge del diritto, dei diritti civili, della nascita di Stati a base costituzionale, ha visto l’imposizione di regimi mantenuti con l’uso della forza e delle armi. Territori sempre più vasti che sono andati via via militarizzandosi, governi retti da apparati militari, rivendicazioni etniche locali e religiose portate avanti invece che col dialogo e il confronto, con la “cultura delle armi” ingenerando le basi per sempre nuovi conflitti.
L’Occidente ridisegnando a tavolino le mappe della zona, rompendo continuamente i già fragili equilibri, e avvantaggiando alcune componenti piuttosto che altre, ha enormi responsabilità su una serie continua e ininterrotta di conflitti armati che si sono innescati a vari gradi e livelli per lunghi anni in tutta l’area mediorientale.
Lo scenario attuale vede due poli principali contrapporsi nell’area, due potenze regionali che si contendono la supremazia del territorio mediorientale. L’Arabia Saudita da una parte e l’Iran dall’altra. Si contrappongono avendo stretto alleanze politiche, firmato accordi commerciali e militari con dei potenti alleati esterni, i quali gli procurano armi, addestramento, tecnologie, strategie, supporto tattico, rifornimenti e appoggio militare. L’Arabia Saudita nello scacchiere delle alleanze ha potuto finora contare sull’appoggio e il sostegno tutto occidentale, Stati Uniti ed Europa, Gran Bretagna compresa, e l’Iran invece ha contato principalmente sul sostegno di Russia e Cina. Uno scontro che ha visto finora come teatri principali del conflitto, la Siria, l’Iraq e lo Yemen.
Una specie di piccola guerra mondiale, ma almeno fino adesso condotta per procura e circoscritta all’area mediorientale.
Una contrapposizione serrata, che durante le fasi più salienti e importanti del conflitto ha visto un maggiore coinvolgimento sia degli alleati dell’Iran che dell’Arabia Saudita. Fasi in cui la Russia da una parte e gli Stati Uniti dall’altra hanno manifestato la loro presenza in modo via via sempre più evidente. All’interno del conflitto, anche la Turchia, ufficialmente Paese NATO, ma che praticamente ha svolto il ruolo di battitore libero, di fatto non schierandosi mai in modo definitivo su un fronte oppure sull’altro, ma cercando invece di volta in volta di portare avanti i propri esclusivi interessi, incuneandosi dove poteva all’interno del conflitto per trarne un qualche vantaggio.
Resta da vedere adesso come muterà questo scenario, in specie alla luce dell’uccisione del generale iraniano Soleimani, un’uccisione operata fuori da ogni criterio del diritto, senza un mandato ONU e senza nemmeno una consultazione operata sotto il cappello della NATO, un attentato vero e proprio da cui persino Jens Stoltenberg, il segretario dell’allenaza atlantica si è parzialmente smarcato, dicendo ufficialmente che l’uccisione di Soleimani è stata una decisione presa completamente sotto la responsabilità di Trump, un’azione realizzata in modo aperto e dichiarato, rivendicandone da subito la paternità. Per il diritto si tratta d’un crimine di guerra, ma che in qualche modo però ha forse in sé un unico pregio: mettere in luce a tutta l’opinione pubblica, la vera natura di questo conflitto.
Un conflitto che dura ormai da decenni e che con la mossa di Trump si trova ora di fronte a un bivio: trasformarsi da conflitto per procura a scontro di guerra diretto, il quale vedrebbe affrontarsi in prima linea e in modo aperto, non solo Arabia Saudita e Iran, ma anche i loro alleati occidentali, oppure, trovare una via di risoluzione, in una progressiva de-escalation della tensione. Guardando le cose a distanza di quasi una settimana dal Raid statunitense, partito per ordine di Trump, l’assassinio di Soleimani, più che l’inizio di un vero e proprio scontro diretto, parrebbe sempre più assumere i contorni d’un regolamento di conti, di fatti, pur esprimendo toni molto preoccupati, è proprio così che fin da subito, il generale italiano Angioni lo ha definito: “un atto che nella nostra cultura deteriore definirei ‘mafioso‘” come lo è d’altronde ogni regolamento di conti.
Questa la storia dove ci porta fino ad oggi. Una storia che vede da svariati decenni un territorio militarizzato, reso teatro di un “eterno” conflitto, con delle profonde fratture di fondo, provocate dal disfacimento dell’Impero Ottomano, rese crateri a suon di bombe Made in Occidente, con delle tensioni storiche e di base che invece di essere aiutate ad attenuarsi e ricomporsi, han visto da sempre le politiche delle potenze occidentali, gettare sale su vecchie ferite aperte, e benzina sopra antichi fuochi per farli diventare pericolosi incendi.
Andando oltre alle ipocrite dichiarazioni di rito, quelle espresse per bocca dei rappresentanti e dei governi delle potenze occidentali, i fatti però dicono ben altro. In questi anni, per bocca dei vari governi dell’Occidente abbiamo sentito di tutto: “missioni di pace”, “disinnesco del conflitto”, “argine al terrorismo”, “stabilizzazione” persino “lotta per la liberazione”, “garantire la democrazia” sovente si è usato anche il termine “primavere arabe” per nascondere invece al posto loro, colpi di stato, anche questi operati per procura, che hanno visto sì abbattere dei regimi più o meno autoritari e sanguinari, solo per vederli soppiantati però da uno stato prolungato e continuo di guerre civili, dove all’interno di esse si è operato il traffico delle armi e di persone, l’ignominia dei peggiori crimini e crudeltà che l’uomo possa concepire, stragi di innocenti, deportazioni in massa, campi profughi che assomigliano più a lager che a prigioni, non si contano più ormai i morti per via di atroci ferite, per fame, per sete e stenti, e poi ancora la tratta per sfruttamento sessuale, la distruzione e la sparizione di beni culturali, architettonici, artistici e naturali, patrimoni di tutta l’umanità, il commercio sulle vite.
Che di fronte alla tragedia del conflitto mediorientale, le dichiarazioni occidentali suonino false e ipocrite è facilmente riscontrabile andando a vedere i dati relativi all’esportazione delle armi in Medio Oriente.
Secondo un report del 2016, la Francia solo nei confronti dell’Egitto è passata da 39,6 milioni di euro nel 2010 a fatturare 1,3 miliardi di euro nel 2016 per la vendita di armi. Tutto ciò nonostante che nell’agosto del 2013, il Consiglio Affari esteri dell’Unione europea abbia dichiarato che gli Stati membri della UE sono tenuti a sospendere le esportazioni verso l’Egitto di qualsiasi arma o strumento utilizzabile per fini di repressione domestica.
La Gran Bretagna invece stando a un altro rapporto, risulta essere ancora il maggiore esportatore di armi in Arabia Saudita, al secondo posto gli Stati Uniti e al terzo posto la Germania e al quarto, “new entry” l’Italia. Queste armi causano ogni mese la morte di decine di migliaia di civili in Yemen.
Le armi made in Germania ad esempio vengono impiegate in maniera massiccia per i bombardamenti sauditi in Yemen, un dato che forse ai più è poco noto, in tre anni 85mila bambini sono morti di fame, a causa della guerra fra Arabia e Yemen.
Nel 2019 l’Italia ha chiuso l’anno con un ulteriore incremento di fatturato nella vendita di armi nella regione mediorientale, + 1,5 miliardi di dollari nella vendita di aerei (inclusi gli Eurofighter), elicotteri da combattimento, sistemi d’armamento navale e sicurezza informatica. Armi che sono andate alla Saudi Arabian Military Industries (società nata nel 2017 e controllata dalle autorità saudite) e all’Egitto, Paese nel quale le continue violazioni dei diritti umani e le politiche di ‘tolleranza zero’ verso ogni forma di dissenso vengono riportate costantemente da tutte le principali organizzazioni internazionali.
Così come d’altronde la Russia nel 2018 è diventato il 2° produttore di armi al mondo, scavalcando la Gran Bretagna e restando dietro soltanto agli inarrivabili Stati Uniti che restano saldamente al primo posto nella classifica dei costruttori di morte a livello mondiale. Sempre la Russia all’interno del conflitto mediorientale è il 1° fornitore assoluto di armi all’Iran, ma anche alla Siria. In totale, i produttori russi nell’anno 2018 hanno venduto 37,7 miliardi di dollari (circa 32,9 miliardi di euro) di armi.
La voce ufficiale di questo tipo di fatturato si chiama “sicurezza e difesa” due parole che niente hanno a che vedere poi con l’utilizzo che si fa di questi armamenti, perché per la maggior parte queste armi vengono utilizzate dai vari regimi presenti in Medio Oriente per compiere violazioni dei diritti umani e repressioni di massa ai danni di milioni di esseri umani.
Una percentuale importante, che si stima arrivi intorno al 22%, arriva poi nelle mani di vari gruppi terroristici che operano nell’area, sostenuti ‘per procura’ dai regimi locali oppure da attori terzi esterni alla regione, vedi paesi occidentali.
E perché non parlare anche delle missioni militari ormai infinite nella regione, (18 anni la presenza italiana in Afghanistan, e 16 anni quella in Iraq). All’epoca (ormai quasi 20 anni fa) fu detto che la presenza delle truppe occidentali era necessaria per “arginare il terrorismo” la famosa “guerra al terrorismo” strano modo di condurla però dal momento in cui secondo i dati ufficiali del Dipartimento di Stato americano, gli incidenti registrati sotto la voce di “terrorismo” in Iraq e in Afghanistan dall’inizio di questa guerra al terrore, sono aumentati del 7200%, sì avete letto bene lo riscrivo in lettere settemiladuecento percento 199 attacchi terroristici nel 2002 a fronte di 14.328 nel 2016.
E’ per questo che ai tanti Paesi che in Medio Oriente vivono sotto un regime dittatoriale, ben prima di dettare lezioni di civiltà dall’alto delle nostre sbandierate democrazie , sarebbe necessario almeno chiarire in modo inequivocabile che una percentuale consistente degli enormi interessi economici e strategici portati avanti con le politiche di ‘stabilizzazione’ e perseguiti da numerosi Paesi e attori europei e occidentali, mi riferisco in specie a questo alle politiche di “difesa” e di “sicurezza”, che sono portate avanti sulla pelle di milioni di persone presenti nella regione mediorientale.
Alcuni sostengono giustificandosi che, limitando o togliendo il mercato delle armi, ciò porterebbe con sé “drammatiche conseguenze negative in termini occupazionali e commerciali”. Ma a questo punto pongo una domanda: I dati sull’occupazione e il fatturato devono avere una preminenza persino sulle peggiori violazioni dei diritti umani e sui milioni di morti che sono andati accumulandosi ormai, in oltre 18 anni di conflitto mediorientale?
Donald Trump, ma anche altri capi di Stato, sostengono che se l’Italia e gli altri partner europei smettessero di fare business dalla vendita delle armi e degli apparati militari ai paesi mediorientali, il loro posto verrebbe presto preso da altri attori internazionali. Certo è possibile, ma allo stesso tempo, mossi dalla stessa identica logica, poniamo il caso ci sia una persona in ostaggio e sotto il tiro di un cecchino, allora che si fa, gli spariamo prima noi perché altrimenti lo farebbe comunque il cecchino, gli diamo una morte sotto il “fuoco amico”?
Sembrano discorsi d’altri tempi, ma non lo sono; esiste più di una corrente di pensiero che circola persino fra le nostre diplomazie occidentali, correnti contraddistinte da un preciso modo di pensare che non esiterai a definire quanto meno razzista oltre che cinico e fuorviante: linee politiche che sostengono che i popoli arabi sarebbero “inadatti alla democrazia…”
Non si tratta di un pensiero sporadico, bensì purtroppo di un’opinione molto diffusa anche nei salotti diplomatici occidentali, secondo cui il Medio Oriente e i popoli che lo abitano sarebbero intrinsecamente “dispotici” e che dunque non ci sarebbe alternativa a questo modo di concepire la “sicurezza” e la “stabilità” se non con la forza, con la paura, con il controllo, e ovviamente, con le armi.
Secondo Borzou Daragahi, “l’assunto che gli arabi abbiano bisogno di dittatori (alias “stabilità”) è un conveniente mito utilizzato da moralisti bigotti al fine di poter portare avanti le proprie relazioni politiche e commerciali in simbiosi con i regimi autocratici”.
Georges Fahmi, ricercatore dello European University Institute (EUI), è andato invece molto oltre, notando che “invece di domandarci se i popoli della regione siano o meno pronti per la democrazia, dovremmo chiederci se lo siano i politici europei, dal momento che molti di essi sembrano far parte della schiera dei più convinti sostenitori dell’autoritarismo nella regione mediorientale”.
Durante tutto il diciannovesimo secolo, in piena età romantica, gli allora teorici della democrazia discutevano coi loro colletti inamidati, all’interno dei loro salotti borghesi, ragionavano in modo del tutto naturale chiedendosi se un paese, oppure un altro, fossero “adatti alla democrazia”. Ma la domanda stessa è del tutto sbagliata, come sostenne in un a conferenza Amartya Kumar Sen, vincitrice nel 1998 del Nobel Prize per l’economia: “Non c’è da porsi la domanda se ritenere o meno un paese adatto o maturo per la democrazia; piuttosto, è molto più intelligente e utile domandarsi come e cosa ci sia da fare per portare un Paese alla democrazia.
Oscar Wilde sosteneva invece che “il cinico conosce il prezzo di ogni cosa, ma il valore di niente”. È per questo che la strada che abbiamo intrapreso, quella del dare un prezzo ad ogni cosa, alla fine, non solo ci sta portando a perdere di vista ciò che è veramente essenziale da ciò che non lo è, ma è nello stesso atto di dare un prezzo ad ogni cosa che perdiamo di vista anche il valore essenziale della vita umana, della dignità di ogni persona, della bellezza senza prezzo del mondo in cui viviamo, di un valore che è motore stesso dei tempi e della storia, la liberazione dell’essere umano e dell’umanità, in un processo continuo che mai si è arrestato nella storia e mai si deve arrestare nei nostri pensieri. C’è un bisogno talmente forte, come può avere bisogno una pianta dell’acqua in un deserto, di rimettere al centro i valori essenziali, non per inseguire astruse e teoriche ideologie ecopacifiste applicabili però solo per un’elite di pochi puri, oppure attraverso impercorribili sentieri nazionalisti che ci ricacceranno dritti dritti dentro al calderone infernale delle più grandi tragedie umane del 900’, da cui ancora oggi non siamo usciti.
Di numeri, d’economia, di prezzi, di formule, ne abbiamo fin sopra gli occhi, le orecchie, ed anche i capelli. Abbiamo bisogno invece di rimettere al centro i valori, quelli umani e umanisti, il valore della vita, dell’altro, dentro cui ognuno possa specchiare anche la propria di vita.
Diceva un vecchio amico: “chi rende l’altro una cosa, alla lunga rende una cosa anche sé stesso” in primis nel suo modo di pensare, “chi disumanizza il prossimo in quello stesso atto, disumanizza anche sé stesso”, non credo ci sia bisogno ancora di altri segnali, o altre dimostrazioni scritte col sangue e la sofferenza di milioni di persone, per indicarci che la via che abbiamo intrapreso, e che per prima sta nella nostra testa, va assolutamente corretta, è necessario farlo per garantire un futuro al nostro tempo, dove per prima cosa, è da evitare come la peste, che i ‘nostri’ interessi vengano perseguiti ricadendo sulle spalle di milioni di “altre persone” che non perché non le vediamo, allora è come non esistessero, esistono eccome, e come tutti gli esseri umani, o prima o dopo reclameranno con sempre più forza il loro diritto ad esistere. Non abbiamo bisogno di prezzi, e nemmeno più di slogan, ma di Valori.