Il diritto di proprietà di un bene pubblico non può essere tirato fuori solo quando fa comodo e contro l’uso comune per fini sociali.
Allo sgombero del settembre scorso della Casa del Popolo di Palermo, costituitasi presso l’ex Istituto Statale per Sordomuti (in stato di abbandono da oltre un decennio) ad opera di una pluralità di soggettività sociali, è seguita una azione giudiziaria a carico di oltre una ventina di attivisti, portatori di esperienze diverse che l’avevano frequentata in occasioni di iniziative culturali o per promuovere manifestazioni di massa che hanno coinvolto la città e le sue istituzioni – come il “Gay Pride.
Ma soprattutto la “Casa”, grazie al volontariato di molti giovani coinvolti nel piano di solidarietà denominato “Tempo d’Estate”, era diventata per la città luogo di attività sociali, di incontri e – in particolare – di svago per i bambini del quartiere.
Fermo restando la critica e i dubbi di costituzionalità sui “decreti sicurezza” che criminalizzano anche queste forme di cittadinanza attiva, vogliamo portare il nostro contributo al dibattito sulla questione dell’autogestione dal basso degli spazi pubblici. C’è una sentenza che vale la pena rispolverare in questi tempi di grande fervore repressivo in tema di supposte occupazioni abusive di immobili di proprietà pubblica, ovviamente vuoti e abbandonati, gestiti per fini sociali dalle varie sigle per lo più antagoniste.
La sentenza del 30 maggio 2018 promana dalla Cassazione penale, organo supremo giurisdizionale che certo non è in odore di movimentismo. La vicenda, oggetto del giudizio, si svolge a Pignataro Maggiore in provincia di Caserta e inizia circa una ventina di anni or sono quando un gruppo di “bambini” (così definiti dal tribunale) sotto la sigla “Tempo rosso” occupa l’ex macello comunale, vuoto e abbandonato appunto, per svolgerci attività sociali. Dopo due decenni qualcuno si ricorda di questo misfatto e lo denuncia, così che la Procura della Repubblica del tribunale di Santa Maria Capua Vetere si attiva e chiede il sequestro preventivo dell’immobile contestando agli occupanti (ormai maggiorenni) i reati di invasione di edifici (art.633 c.p.), di deturpamento e imbrattamento di cose altrui (art.639 c. p.) e omissione di lavori in edifici che minacciano rovina (art.677 c. p.).
In prima battuta il giudice per le indagini preliminari rigetta la richiesta di sequestro preventivo avanzata dalla Procura e il tribunale conferma il provvedimento di rigetto rilevando che non fosse configurabile il fumus dei reati ipotizzati e, specificamente, per il reato di occupazione abusiva “perché gli indagati erano bambini al tempo in cui l’ex macello comunale era stato occupato dal centro sociale e il Comune aveva prestato ventennale acquiescenza all’occupazione, sostanzialmente legittimandola ed impedendo la configurazione dell’elemento soggettivo in capo agli indagati”.
Il procuratore della Repubblica però non accetta il rigetto della sua richiesta e ricorre in Cassazione peché il reato di invasione dell’ex macello comunale venga qualificato come istantaneo ad effetti permanenti anziché come reato permanente “dalla cui natura dovrebbe la sussistenza dell’illecito contestato agli indagati anche sotto il profilo soggettivo”.
La Cassazione però si disinteressa della sottile disquisizione sulla qualificazione giuridica del reato di occupazione e si concentra, molto succintamente come vedremo, sull’elemento soggettivo e cioè sul dolo che avrebbe sostenuto l’attività di occupazione rendendola illecita.
Il dolo non è altro che la coesistenza della coscienza della illiceità dell’azione che si compie e della volontà di compierla e cioè del rendersi conto di compiere un’azione contro la legge e appunto della volontà di realizzarla, sempre contro la legge.
La Cassazione, concordando pienamente con gli argomenti del Tribunale, spiega come mancasse agli imputati questa coscienza dell’illiceità della occupazione “a causa del lungo periodo di tempo, circa 20 anni, in cui il Comune, proprietario dell’immobile, aveva prestato acquiescenza alla supposta occupazione abusiva, ingenerando il convincimento negli indagati, attraverso atti positivi come il pagamento dell’utenza relativa al consumo di energia elettrica dell’immobile, della legittimità dell’occupazione, così escludendone il dolo”.
La sentenza ha una sua morale che la Cassazione non poteva esplicitare integralmente, ma che è sottesa alla decisione: il diritto di proprietà di un immobile non può essere tirato fuori (come nel caso dell’ex Istituto di via Cavour) solo quando fa comodo, al Comune di Pignataro in questo caso, ma va contemperato con il diritto di essere usato, anche da terzi, per fini sociali. E’ quella funzione sociale della proprietà che è sancita dalla Costituzione e che le ragazze e i ragazzi di Tempo Rosso hanno attuata nel contesto del loro territorio.
Giuseppe Di Lello, giudice emerito, già consigliere comunale di Palermo, deputato e parlamentare europeo