Questa è la storia di una vittoria legale trasformatasi in disfatta: pur avendo vinto un processo contro la Texaco-Chevron, l’avvocato Pablo Fajardo non ha ottenuto i risarcimenti per le vittime. Di recente però, un gruppo di indigeni in Ecuador ha evitato a monte l’insediamento della Andes Petroleum. Due casi a confronto.
Talvolta accade l’inimmaginabile. Il 6 novembre scorso alcuni leader indigeni Sapara hanno annunciato d’aver vinto la loro battaglia contro la Andes Petroleum, joint venture petrolifera cinese in Ecuador. Un caso raro di pollice verso per Davide contro Golia. La disputa riguarda una concessione governativa di 158mila ettari di foresta sulla quale la multinazionale (fusione tra la China National Petroleum Company e la China Petroleum & Chemical) aveva investito molti soldi, dandola già per sua. Ma la tenacia dell’opposizione indigena in questo caso ha avuto la meglio: 500 persone, appartenenti all’etnia Sapara (ma anche Kwichwa e Sarayaku) dichiarata dall’Unesco Patrimonio Culturale Intangibile dell’Umanità, hanno combattuto per l’integrità del proprio territorio. E hanno vinto. La Andes Petroleum ha dovuto dichiarare lo stato di “forza maggiore” e abbandonare il famigerato Blocco 79.
Gli indigeni si sono impegnati contestualmente a difendere i loro territori da ogni forma di estrattivismo e a promuovere piani di protezione degli ecosistemi e della selva. Questa è una storia a lieto fine, almeno per il momento.
Ma nelle terre amazzoniche costrette da decenni a subire le infiltrazioni di un business senza ritegno, le popolazioni locali sono spesso vittime di un sistema economico spietato. Che anche quando costretto ad ammettere la sua colpa, non accetta di risarcire la parte lesa. E’ ciò che sta avvenendo oramai da 26 anni nel Nord dell’Amazzonia, in Ecuador, ferita dalle compagnie petrolifere Chevron-Texaco.
Ce ne ha parlato l’avvocato attivista simbolo di questa lotta: Pablo Fajardo, impegnato nella difesa legale delle popolazioni che vivono tra le province di Sucumbios e Orellana. «In questi 26 anni di processi contro Chevron – dice Fajardo – abbiamo capito che non c’è un accesso equo alla giustizia: il caso Chevron dimostra un assoluto vuoto legale. Da una parte abbiamo un’azienda multinazionale e dall’altra una popolazione senza potere», racconta. I processi si sono svolti in Brasile, Argentina, Stati Uniti, Canada. «Chevron si rifiuta di pagare: non siamo ancora riusciti a rendere la sentenza esecutiva», racconta.
Nel corso di questi lunghi anni la multinazionale ha sversato in Ecuador 68 miliardi di litri di scarti petroliferi, solventi chimici e acque tossiche, contaminando un’area di 450mila ettari. I dati sono dell’Union dos Afectados por Chevron Texaco (Udapt) e li riporta lo stesso Fajardo in un incontro tenutosi a Roma durante il mese del Sinodo sull’Amazzonia. Quest’avvocato di 48 anni ha trascorso gran parte della sua vita professionale a difendere le 30mila vittime del disastro ambientale e sociale: la causa sulla carta l’ha vinta, ma non può ottenere giustizia.
Pablo nasce in una famiglia di contadini in un villaggio dell’Ecuador: vivono in estrema povertà e così ad un certo punto decidono di trasferirsi nella foresta amazzonica dove per loro c’è forse più opportunità di guadagno. Oggi Pablo ricorda che «l’Amazzonia era piena di spiriti, di sussurri, di odori e di sapori, piena di acqua, insetti e animali, in poche parole era piena di vita». Solo un membro della numerosa famiglia dei Fajardo ebbe l’opportunità di studiare: questa fortuna toccò a lui, studente promettente, che grazie anche all’aiuto dei Frati Cappuccini poté andare all’università e diventare un avvocato.
Negli anni Novanta inizia la lunga causa contro Chevron e solo nel 2011 la multinazionale è condannata dalla Corte provinciale di Sucumbios a risarcire le vittime con 9.500 milioni di dollari. Il processo stabilisce che c’è stato un danno “intenzionale” da parte di Chevron-Texaco sul territorio ecuadoriano. L’intenzionalità era data dal fatto che «le tecnologie utilizzate dalla compagnia nello stesso periodo per le estrazioni negli Stati Uniti erano più sofisticate e finalizzate a ridurre i danni ambientali, problema che non si erano invece posti per il territorio ecuadoriano».
Si delinea dunque un doppio standard: pratica che sempre più spesso viene utilizzata dalle multinazionali, attente al rispetto dell’ambiente solo laddove sanno che altrimenti verrebbero subito messe fuori legge.
La vittoria dei contadini è illusoria perché due mesi dopo un tribunale della Corte permanente di arbitrato dell’Aja ordina l’annullamento della sentenza che condannava Chevron al risarcimento dei danni. L’Ecuador è accusato di aver violato un articolo del Trattato bilaterale sugli investimenti (Bilateral investment treaty) esistente tra Ecuador e Stati Uniti dal 1993, mentre la nuova riapertura del caso impedisce l’attuazione della precedente sentenza e blocca il risarcimento dei danni previsto. La “contro-sentenza” è un durissimo colpo per l’intera comunità oltre che per Fajardo: il nemico degli attivisti diventa anche lo Stato dell’Ecuador.
«Il governo ecuadoriano negli ultimi due anni – denuncia Fajado – sta sviluppando politiche per contrastare gli indigeni. Ha contratto un debito di 4,5 miliardi di dollari col Fondo monetario internazionale che chiaramente ora chiede condizionalità e tra queste una maggior flessibilità del lavoro».
Quindi impone di generare maggiori incentivi economici per le aziende. Un governo che deve sottostare ai piani di aggiustamento strutturale del Fmi non può permettersi di schierarsi contro un gigante come la Chevron.
Lo Stato, dice Pablo, «è ostaggio del Fmi». Come Unione delle vittime della Chevron, gli indigeni lottano anche presso le Nazioni Unite affinché venga adottato il testo di un Trattato “vincolante” per le multinazionali, in modo che siano costrette a rispettare i diritti umani, sempre e ovunque. Ma il principale ostacolo alla sua adozione, a quanto pare, è proprio l’Unione Europea. Oltre alla Cina, alla Russia, agli Stati Uniti. Sono stati Ecuador e Sudafrica a proporre la risoluzione del 2014 che ha portato alla creazione del gruppo di lavoro e ai negoziati per la definizione di questo Trattato.
La strada per il raggiungimento di un accordo realmente incisivo è ancora lunga: ci sono, come prevedibile, numerose resistenze da parte dei Paesi sedi delle maggiori imprese multinazionali. In particolare, Russia e Cina hanno osteggiato a più riprese le proposte più progressiste. Tra le questioni aperte che destano più preoccupazione c’è l’allargamento del campo di applicazione del Trattato dalle società transnazionali a tutte le tipologie di società; l’incertezza rispetto agli obblighi giuridici in capo alle imprese anziché agli Stati, facendole diventare per la prima volta nella storia soggetti del diritto internazionale. «Il tempo per noi non è oro ma vita», dice Fajardo. «Ma la sollevazione indigena non è ancora finita».
di Ilaria De Bonis, articolo pubblicato da Popoli e Missione