È accaduto un anno fa, anche se è diventato oggetto di cronaca soltanto ieri nell’occasione di un presidio in via Calzaioli a Firenze, in solidarietà a tre giovani ex-lavoratori della cioccolateria Venchi. Licenziati perché in una conversazione privata facevano battute sulla cannabis light.
Così si legge nelle motivazioni, licenziati per aver “mosso ilarità su prodotti commerciali di cannabis light, venduti dal negozio di Via del Corso”.
Battute private che hanno avuto la “sfortuna” di essere ascoltate da una zelante collega “in carriera”, interpretate forse inconsapevolmente oppure volutamente che sia, in modo distorto, riportando da queste una realtà giudicabile quanto meno capziosa all’azienda.
La “solerte” e “ineffabile” dirigenza della Venchi procedeva allora ad istruire una moderna “caccia alle streghe”.
“Punirne uno per educarne cento”, veniva detto un tempo… e così, si scatena una tempesta da un bicchiere d’acqua, dove adesso rischiano di annegare non solo diritti e dignità di tutti i lavoratori coinvolti, in primis quella di coloro che sono stati prima sospesi e poi licenziati e che in ciò hanno ricevuto il danno maggiore, ma riflettendoci bene anche tutti gli altri lavoratori a partire dalla “zelante” collega che ha riportato le conversazioni private, e parrà strano ma persino la dirigenza della Venchi che ha istruito un procedimento interno fino a farlo divenire licenziamento, ne escono moralmente, eticamente e anche a livello d’immagine sconfitti.
Sì perché, poco importa all’azienda Venchi che alcuni prodotti sul mercato, commercializzati dai loro negozi autorizzati, riportino disegni che richiamano fortemente alla pianta della cannabis, sebbene poi non contengano in realtà alcuna sostanza derivata da essa, poco importa anche che non ci sia nessun riscontro oggettivo, ma tutto si sia mosso sul riportato di un “sentito dire”, poco importa anche che questi dialoghi fra lavoratori fossero condotti in modo privato e per battuta, senza che nell’occasione ci fossero né clienti, né terze persone non autorizzate nei locali interni del negozio e riservati al personale addetto; non è importato a Venchi nemmeno che si trattasse di lavoratori onesti e corretti nello svolgimento delle loro mansioni, l’azienda ha comunque colto la palla al balzo per un’azione dimostrativa, allineata alle recenti campagne mediatiche di natura tutta politica, di criminalizzazione persino dei derivati della cosiddetta cannabis light, che le sostanze psicotrope a base del THC, nemmeno col binocolo riescono a vederle.
Sembrano storie antiche, quelle che raccontava mia madre, classe 1933, quando negli anni 50’ sui posti di lavoro, i lavoratori, specie le persone impegnate in lavori poco specializzati, dovevano sottostare e stare bene attenti ad ogni cosa che potevano dire, persino all’interno d’una conversazione privata come quella avvenuta un anno fa tra questi giovani lavoratori.
All’epoca, così raccontano tuttora coloro che erano gli allora lavoratori, anche delle banali esternazioni, o cose dette in ambito privato, potevano diventare oggetto sia di provvedimento disciplinare che di licenziamento, all’epoca, poi il licenziamento del lavoratore portava in sé il cattivo “marchio” che identificava la persona come “cattivo lavoratore” da cui poi derivava la speciosa conseguenza di avere molte difficoltà a ritrovare un posto di lavoro.
Ed è proprio così che oggi, in un contesto e con dei modi che ricordano i primi anni 50’, che si sono trasformate delle banali conversazioni, in “punizione”, oltre che dramma lavorativo e personale, per tre giovani lavoratori, oggi all’alba del 2020, nella progredita e progressista Firenze che fu capitale della cultura europea.
Anche se potrebbe apparire fuori contesto citare Firenze omaggiata in tempi non lontani del fregio di “Capitale della cultura europea” ebbene non lo è affatto.
Cultura che nella sua accezione più completa comprende anche il concetto di: “Cultura del lavoro”. Una cultura del lavoro che 70 anni dopo il contesto lavorativo che vigeva negli anni 50’ dovrebbe come minimo essere andata avanti, un cultura lavorativa che dovrebbe guardare al rispetto dei diritti delle persone, perché in primis un lavoratore qualunque sia la sua mansione, è una persona; una cultura che dovrebbe spingere affinché gli ambienti di lavoro siano luoghi dove si collabori e ci si aiuti per portare in fondo nella maniera migliore e più sana possibile un determinato lavoro, una maniera che oltre ad essere efficace e proficua per il lavoro stesso, crei le migliori condizioni possibili affinché le persone impiegate in tale lavoro vengano messe nella miglior situazione possibile perché possano svolgere al meglio la propria mansione, tutto questo non prevede certo la “punizione” per aver condotto una conversazione dai toni scherzosi in un momento di rilassatezza o di pausa nello svolgere delle mansioni.
E sebbene la cultura del lavoro in primis dovrebbe basarsi sulla creazione delle migliori condizioni possibili, anche e soprattutto umane, affinché le persone possano condurre al meglio la propria mansione, ma volendola anche vedere nei termini e dal punto di vista tanto cari alla “cultura del libero mercato”, c’è da domandarsi allora quale arcana formula di produttività si nasconderebbe dietro al punire, fino al licenziamento, per delle banali conversazioni condotte per di più in modo privato e non di fronte ai clienti?
Bisogna domandarselo questo, perché storie come questa avvenuta a Firenze, sono chiari indicatori di un degrado del contesto lavorativo che si è venuto a creare. Un ambiente, quello del mondo del lavoro attuale, che purtroppo oltre a confermare che i lavoratori non sono riconosciuti come persone, e vengono invece trattati come numeri, ci dà anche evidenza di condizioni lavorative sempre più spesso “tossiche” e alterate, a tal punto da trovare occasione di punire persino ciò che venga detto all’interno di una conversazione privata, e per di più svolta in modo scherzoso.
Ma c’è ancora di peggio, i solerti dirigenti della Venchi, ben sapendo della forzatura sindacale e legale che si stava mettendo in atto, prima del licenziamento hanno persino tentato di spingere i ragazzi a licenziarsi autonomamente, e in fase successiva, minacciato i lavoratori di chiedere loro danni di immagine nel caso in cui non vengano ritirate le accuse contro l’azienda e rinuncino così a rivendicare i propri diritti, nel processo appena iniziato.
Surreale, perché il danno d’immagine non è in alcun modo identificabile all’interno di una conversazione privata svolta fra gli stessi lavoratori, bensì a questo punto delle cose, deriva dal polverone che l’azienda stessa ha scatenato con la “punizione esemplare” comminata ai lavoratori.
Forse contavano alla Venchi, che tutto ciò restasse in silenzio, mi si passi il termine, in “omertoso modo”. Certo visti i tempi che corrono è immaginabile che per una situazione di cui si abbia notizia e che venga la luce, ce ne siano altre decine e decine sommerse, di cui niente si sappia, magari per paura da parte di chi le subisca di possibili ritorsioni nel prossimo futuro lavorativo.
Ma a questo punto è lecito porsi una domanda a carattere generale, che potrebbe anche apparire una provocazione, ma che purtroppo non lo è. Ci troviamo ancora all’interno di quello che è definibile come ambiente lavorativo, oppure nel lavoro ci stiamo sempre più avvicinando a modi di operare vigenti in ben altre realtà e “organizzazioni” che niente hanno a che vedere con la legalità e col lavoro?
Bisogna domandarselo, perché pensando bene al contesto di alcune condizioni che si stanno verificando nell’attuale mondo del lavoro, purtroppo risulta non essere più soltanto una domanda provocatoria. Si parla di precisi aspetti e implicazioni, insiti in questa vicenda che dovrebbero dare molto da pensare: l’indubbio intento punitivo per avere espresso della semplice ironia, perché come altro identificarlo un licenziamento a seguito di alcune battute innocenti espresse pure in ambito privato. Il comportamento di una delle persone coinvolte, una collega lavorativa che, invece di sorridere coi colleghi, dando la giusta dimensione alla cosa, pensa bene di riportare tale conversazione a dei superiori. Il comportamento dei superiori che, invece di liquidare la cosa con una risata, perché tale era la risposta che avrebbe meritato, pensano bene d’istruire un procedimento disciplinare che termina con un licenziamento. E infine l’aspetto nemmeno velato di pressione mossa sui lavoratori affinché restino pure in “omertoso silenzio” di fronte ai fatti subiti, vicenda che parrebbe infine arrivare anche ad assumere aspetto di natura “ritorsiva” nei confronti dei lavoratori, qualora questi non avessero lasciato cadere nel nulla la cosa. Questo è quello che viene fuori da questa tristissima vicenda, qualcosa che ci obbliga anche a domandarci quante altre centinaia di situazioni simili possano oggi venire a verificarsi nell’attuale mondo del lavoro.
Le unità sindacali CUB Firenze e CUB Rail che si stanno occupando di sostenere i tre ex lavoratori della Venchi, e che di fatto hanno portato alla luce i fatti della vicenda, hanno chiesto il pieno e immediato reintegro nel posto di lavoro e i dovuti risarcimenti ai lavoratori per i mesi non lavorati.
Certo è che, se danno d’immagine ci sia stato, questi è riscontrabile in modo evidente nello stesso comportamento dell’azienda Venchi, che da due semplici battute scherzose ha messo in piedi qualcosa che oltre ad essere ingiusto, irrispettoso dei diritti delle persone e dei lavoratori è enormemente spropositato nella sua risposta e persino controproducente per l’azienda stessa che adesso lo rischia davvero il danno d’immagine.
In tal senso ci sembra il minimo fare come proprio quanto espresso dalle Unità sindacali dei CUB che si stanno occupando di sostenere i tre ex lavoratori della Venchi: “Per quanto ci riguarda sapremo certamente individuare, anche per queste feste, differenti cioccolaterie e diverse marche di cioccolato ben più “dolci” e siamo certi che lo stesso faranno le persone che informeremo di questa disgustosa vicenda.”
E’ d’obbligo infine un’ultima domanda: è dunque questo il tanto decantato modello lavorativo del libero mercato, quello che faceva uso di parole come “produttività, flessibilità ed efficienza” messe davanti a tutto, anche ai diritti umani, e indicate come principi cardine economici da seguire? Vien da domandarselo, perché l’efficienza si sta trasformando sempre più in non rispetto dei più minimi diritti fondamentali dell’uomo, compreso quello di parola; la flessibilità si sta trasformando in sopruso a cui debba seguire”omertà” e silenzio di fronte al danno ricevuto; e la produttività si sta trasformando in una grottesca barzelletta, perché all’orrizzonte con questi presupposti non solo non si vede niente di produttivo, ma si finisce anche per distruggere quel poco di buono e di qualità che era rimasto in questo Paese.