Il 26 novembre scorso, presso la sede FNSI di Roma, davanti ad una gremita sala Walter Tobagi si è parlato di odio comunicativo in relazione alla violenza di genere.
L’incontro, intitolato Parole d’odio e violenza di genere, ha voluto attirare l’attenzione sulle “Giornaliste nel mirino degli odiatori della rete” ed indurre così a riflettere che oggi “Chiudere la bocca alle donne che fanno informazione con intimidazioni, minacce e insulti è un problema serio di libertà, democrazia, di diritti umani”.
Importanti le parole iniziali della Ministra per le pari opportunità Elena Bonetti: è necessario un tempestivo cambiamento socioculturale per fronteggiare quella che può definirsi una vera e propria emergenza. La politica, ha continuato la Ministra, deve mettersi al servizio dei cittadini per risolvere una crisi che conduce ogni giorno di più all’involuzione sociale, e sintomatiche si rivelano le parole utilizzate spesso per descrivere la violenza di genere: ossimori inaccettabili con i quali si associa il termine “amore” a qualificazioni negative come violento o criminale, aggettivi che invece il sentimento lo negano a priori.
La violenza contro le donne si combatte a partire proprio dalla comunicazione, ha precisato il Presidente della FNSI Giuseppe Giulietti nei suoi saluti introduttivi, annunciando l’impegno ad una formazione specifica in collaborazione con atenei ed esperti del settore per elevare gli standard di condotta dei giornalisti.
Ma l’educazione alla non violenza, ha concluso Giulietti, va impartita a tutti indifferentemente, specie i bambini, che un giorno saranno i futuri compagni delle donne.
Veramente interessanti gli altri contributi delle relatrici e dei relatori intervenuti, tutti concordi nell’affermare che una rete oggi è determinante al fine di “cercare una vera unica strada per combattere l’Hate Speech”.
Mimma Caligaris, presidente CPO FNSI, Vittorio Di Trapani dell’USIGRAI, Nadia Monetti dell’esecutivo e CPO ODG hanno raccontato il loro impegno e delle associazioni che rappresentano per la diffusione di una forma diversa di comunicazione, ma soprattutto una cultura civile nel rispetto dei diritti fondamentali da quello all’espressione alla dignità della persona, specie delle donne spesso in prima linea sui media.
Per GIULIA, organismo di giornaliste non sindacale, la presidente Silvia Garambois ha sottolineato la portata dell’Art 21 della Costituzione sulla libera manifestazione del pensiero ed ha parlato degli attacchi alle giornaliste, con espressioni che spesso integrano vere e proprie molestie sul lavoro.
Anche questo un fenomeno non circoscritto solo all’aggressione, talvolta sessista e molto spesso impunita, ai danni di una giornalista, ma sintomatica della mancanza di strumenti grazie ai quali affrontare il vero problema di oggi: il cd. linguaggio di odio.
Le donne oggi diventano obiettivi privilegiati del linguaggio d’odio e sono vittime di un ricatto professionale, ed un attacco mediatico che mette in pericolo la libertà personale di una donna, anche se non arriva al livello della minaccia e si “limita” al sessismo, rende comunque veramente troppo difficoltoso andare avanti con il proprio lavoro.
Il linguaggio d’odio serve sempre per intimidire e partendo da questa riflessione, GIULIA ha proposto non tanto di parlare di “odio comunicativo”, ma di iniziare a ragionare in radice sul linguaggio dell’odio e sulla grave violazione dei diritti fondamentali di una donna conseguente ad una aggressione scatenata sui giornali e sui social.
A questo obiettivo tende la collaborazione di GIULIA con l’Osservatorio nazionale sui diritti, partendo con l’enucleare il linguaggio d’odio – tipo che colpisce le giornaliste.
Roberto Natale coordinatore del Comitato scientifico di Articolo 21 e responsabile sociale relazioni istituzionali della RAI ha citato la sua esperienza con l’Onorevole Laura Boldrini, vittima storica di una continua e grave campagna di odio mediatico che oggi ancora non tende a cessare.
Poi ha parlato della Carta di Assisti, il primo manifesto internazionale contro i muri mediatici e l’uso delle “parole come pietre” frutto di un lunghissimo percorso che nel mettere “insieme persone diverse”, vuole rappresentare “un’area di civiltà”.
Silvia Brena di VOX ha auspicato l’insegnamento di una comunicazione diversa e fondata sul dialogo in tutte le scuole. Insegnare i diritti civili ai giovani, inoltre, anche tramite i social o con campagne mediatiche, significa fare prevenzione efficace.
Interventi di Anna Del Freo della FNSI e di Monica Andolfatto sul Manifesto di Venezia, documento per il rispetto e la parità di genere nell’informazione varato proprio da CPO FNSI assieme a GIULIA, all’Usigrai e al Sindacato dei giornalisti del Veneto.
Presente anche Valerio Cataldi sulla Carta di Roma relativa all’informazione concernente i richiedenti asilo, i rifugiati, le vittime della tratta ed i migranti.
Tutti i relatori hanno fatto appello ai dettati deontologici della Carta dei Doveri del Giornalista, con particolare riguardo all’obbligo fondamentale di rispettare la persona e la sua dignità e di non discriminare nessuno per la razza, la religione, il sesso, le condizioni fisiche e mentali e le opinioni politiche nel mestiere di informare.
Ma anche un richiamo perentorio ai principi contenuti nelle norme nazionali ed internazionali, in aderenza al criterio deontologico fondamentale “del rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati” contenuto nell’articolo 2 della Legge istitutiva dell’Ordine.
Sul rilievo che i media hanno relativamente al rispetto dei diritti civili anche le relazioni di Monica Pietrangeli dell’USIGRAI, di Elisa Marincola di Articolo 21 e di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.
È emerso così che la deleteria dinamica degli attacchi sui social implica la convinzione che determinati ruoli vengono associati a specifici spazi in cui restare circoscritti.
Su twitter ad esempio le parole maggiormente associate al genere femminile sono “parrucchiera” ed “estetista”, ma quando una giornalista parte per la Siria o prende posizione contro le mafie, fuoriesce dal suo ruolo e di conseguenza viene fatta oggetto di condanna con parole di odio.
Si tratta in definitiva di “un’eversione sociale che non viene accettata”.
Al termine dell’interessante convegno sono emersi alcuni elementi comuni e fondamentali nel processo di analisi del fenomeno.
- Il cd sciame digitale: viene innescata un’escalation di aggressività comunicativa mediante l’uso di parole – trigger, slogan o termini sensazionalistici, spesso retorici che fanno leva sull’istinto reattivo di tipo emotivo degli utenti social.
- L’esistenza di “echo chambers” in cui le informazioni, le idee o le credenze vengono amplificate o rafforzate dalla comunicazione mediatica e dalla ripetizione all’interno di un sistema di raccolta – dati predefinito, per esempio da Facebook, in base al quale vengono associate persone che hanno uno stesso stile di vita ed uno stesso modus pensandi.
Evidente oramai che quando si tratta di hate speech, i meccanismi sopra richiamati sono come “bombe innescate”, operando sul cd. rilascio del pregiudizio, per cui la coscienza collettiva viene “trainata” verso schemi o orientamenti strumentalmente prestabiliti.
“Il paradosso sta nei contenuti che performano meglio sui social, i quali sono estremamente polarizzati in negativo o positivo. I primi performano meglio, perché un post polarizzato in negativo implica una sensazione che contagia la collettività, entra in un’“echo chambers” e consolida la massa, rafforzando un pregiudizio”.
Allora, in definitiva, come combattere il linguaggio d’odio?
Principalmente denunciando ed avviando procedimenti penali che pongano i cd. haters davanti alle loro responsabilità. E poi bisogna lavorare sulla positività.
Citando la psicologa sopravvissuta al lager Edith Eva Eger, si è evidenziata l’importanza di lavorare sulla “resilienza nelle situazioni di stress”, durante le quali l’energia positiva opera molto più efficacemente contro la distruttività dell’odio mediatico.
E si è fatto l’esempio del Cile ed di un film del regista Pablo Larrain ambientato alla fine degli anni ‘90 nel regime di Pinochet, per contrastare il quale il fronte del NO alla legittimazione del suo governo assoldò un pubblicitario che ideò una campagna mediatica divenuta pervasiva il cui slogan fu “Cile: l’allegria sta arrivando!”.
Infine, il parallelismo fra nascita dell’odio comunicativo e mafia.
Dopo le stragi di falcone e Borsellino vi fu un ritrovato appoggio dell’opinione pubblica alle istituzioni, e di conseguenza la mafia cambiò strategia, iniziando un’opera di delegittimazione di alcune figure impegnate sul versante della legalità, con falsi dossier ed il loro graduale isolamento.
A conferma di questo teorema la testimonianza di Federica Angeli, intervenuta all’incontro con la sua preziosa scorta al seguito, mostrando l’evidenza del coraggioso prezzo che sta pagando per il suo essere giornalista, impegnata in inchieste di mafia e soprattutto donna.
Altre due storie di donne colpite per il loro impegno professionale.
La è prima è quella di Monica Napoli, secondo cui si resta sole a combattere non per una lotta personale, ma nonostante questa certezza nella sua vicenda c’è stato chi ha persino dichiarato che fosse una strumentale esagerazione, criticando il comunicato del consiglio di amministrazione che SkyTg24 aveva preso le sue difese.
Per la Napoli in definitiva i problemi derivano dalla sottovalutazione del fenomeno, ma anche dalla mancanza di una specifica struttura a tutela delle giornaliste sotto attacco.
E poi la lunga serie di offese che Angela Caponnetto da tempo riceve come giornalista che si occupa di migranti e che sono completamente diverse da quelle dirette ai colleghi uomini.
Il primo attacco mediatico alla Caponnetto arrivò nel 2016, in un post intitolato “Traditrici della patria” che la vedeva ritratta insieme a Laura Boldrini e Carlotta Sami.
Fino al suo ultimo servizio andato in onda qualche settimana fa, quando è stata praticamente inondata di insulti sessisti basati sul leitmotiv che lei, come donna, prediliga i migranti.
L’incontro si è chiuso con la convinzione di non volersi arrendere in questa battaglia civile, che di certo non può essere vinta dalle singole giornaliste lasciate da sole sotto attacco, ma che reclama invece una presa di posizione collettiva e di rete, definitiva ed univoca.
Nessuno può e deve andare avanti senza il dovuto sostegno perché il rischio di morire emotivamente e professionalmente è oggi più concreto che mai e soprattutto è l’obiettivo avuto di mira da chi odia.
Articolo di Cristina Perozzi