Circondata da più recenti edificazioni nella parte albanese-kosovara, sede di risorse culturali, archeologiche e paesaggistiche di straordinaria rilevanza , la piccola città di Gračanica è una vera e propria sfida al senso comune, a una serie di stereotipi abusati, in ragione dei quali i Serbi vivrebbero solo nel Nord del Kosovo, non esisterebbero più enclavi in territorio kosovaro, le comunità sarebbero ormai ampiamente integrate. Segnali positivi che indichino che si possa andare e, per alcuni aspetti, nel rispetto del diritto e della giustizia internazionali, si stia effettivamente andando in quella direzione, non mancano. Ma la sostanza del reale, in effetti, è diversa. Diversa, senza dubbio, da Goraždevac, o, diversamente ancora, da Štrpce, Gračanica è una piccola cittadina serba, circondata dalle nuove edificazioni albanesi, attraversata da una unica strada principale, non a caso dedicata alla memoria di Miloš Obilić, leggendario cavaliere serbo al seguito del principe Lazar Hrebeljanović nell’epica battaglia di Kosovo Polje (1389), protagonista del ciclo epico omonimo, con al suo cuore il celebrato Monastero e, tutt’intorno, case e scuole dei Serbi del Kosovo.
La strada è aperta, il senso di assedio e resistenza di questa comunità contornata si percepisce; nessuno scende dall’autobus, proveniente da Prishtina, che ferma su richiesta presso la cittadina, la vita scorre lenta, nelle difficoltà quotidiane, spesso senza sorrisi. Come definire questa altrimenti che una, cosiddetta, «enclave aperta»? È una delle cittadine del Kosovo Interno dove quella che è la principale “minoranza” a livello regionale, diventa “maggioranza” a livello locale, che accompagna le altre cittadine del Kosovo Interno dove ancora sopravvive e persiste una significativa presenza serba, ormai invece, ad esempio, pressoché completamente scomparsa da Prishtina, e paventa il rischio, o l’opportunità, a seconda dei punti di vista, che il Kosovo non sia così facilmente semplificabile o riducibile , tra le quattro province del Nord (Kosovska Mitrovica, Zvečan, Leposavić, Zubin Potok), in cui la maggioranza serba è prevalente, e il resto della regione, dove invece risalta la preponderante maggioranza albanese; e che sia, viceversa, possibile, basandosi sul rispetto dei diritti di tutti e di tutte e di un uguale accesso ai servizi pubblici e sociali per tutti e tutte, immaginare un Kosovo complessivamente unitario ed effettivamente multietnico , dove, cioè, il pluralismo linguistico, religioso e culturale sia pienamente accettato e riconosciuto.
È importante, in effetti, non solo per il futuro della regione, ma per il presente di tutte le comunità, per garantire questo profilo, perfino storico, della regione e per espungere ipotesi di separazione, di abusivi spostamenti di popolazione, di arbitrari riconoscimenti di indipendenza. A Gračanica, la leva di tutto questo è, prevalentemente, la presenza della comunità, raccolta intorno al Monastero, ma non solo quella. Le sorprese continuano, come vedremo, inoltrandosi lungo la strada che porta a Laplje Selo (Lipjanë). Il Monastero di Gračanica esprime, al tempo stesso, una forza ed una bellezza straordinarie. Torna qui la figura del re serbo Stefan Milutin, fondatore del Monastero nel 1321: la Carta di Fondazione è affrescata all’interno, come pure l’immagine simbolica del fondatore, che porta tra le mani la riproduzione del Monastero stesso.
È uno splendore la strabiliante complessità della configurazione architettonica e la mirabile icasticità degli affreschi dell’interno: Gračanica rappresenta, per questi e altri motivi, il culmine dell’arte medievale serba nel contesto della tradizione bizantina, ed i suoi affreschi sono tra i più belli dell’età di Milutin, segnati dalle influenze dello splendore bizantino ed imbevuti dallo stile florido del cosiddetto «Rinascimento Paleologo», uno stile singolare, al tempo stesso figurativo e ieratico, dotto ma decorativo, con elementi di carattere realistico ed ascendenze dai modelli antichi, che segnò le regioni bizantine a cavallo tra il XIV ed il XV secolo, come indicano gli studi seminali, tra gli altri, di Svetozar Radojčić. Oggi figura nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO, nella quale fu iscritta nel 2006, insieme con il Monastero di Dečani. Ma se Dečani, presso Peć/Pejë, è ancora lontana, molto vicino, a pochi chilometri dal Monastero e a dodici chilometri da Prishtina, lungo la strada per Laplje Selo, è il complesso archeologico di Ulpiana. Era il I secolo quando, sotto il potere imperiale, avviò la sua trasformazione da tipica città dardanica a città romana. Il suo nome deriva da quello dell’imperatore che la rifondò, Marco Ulpio Traiano, e raggiunse l’apice del suo splendore a cavallo tra il III e il IV secolo, al punto da guadagnarsi l’appellativo di «Splendidissima Ulpiana».
Distrutta da un devastante terremoto nel 518, fu ricostruita dall’imperatore Giustiniano, l’artefice di quella monumentale compilazione romanistica che resta con il nome di «Corpus Iuris Civilis» , che ne modificò il nome in Justiniana Secunda, facendo seguito alla Justiniana Prima, di cui pure restano tracce archeologiche, presso Lebane. È un sito archeologico, quello di Ulpiana, persino esemplare, senza dubbio il più rilevante dell’intero Kosovo, trattandosi di un vero e proprio «complesso archeologico», importantissimo, razionalmente – simmetricamente – organizzato , nelle parti che lo compongono, da Nord verso Sud (in direzione contraria a quella di ingresso) con la porta maggiore (la Porta Nord), la via di accesso (il Cardo Maximus), una Taberna, le Terme, un Tempio pagano, una Basilica paleocristiana, infine una notevole Villa urbana e, ancora, uno spettacolare Battistero ottagonale. Vi si riscontrano le tracce delle epoche e delle storie, una memoria dell’antichità, importantissima per il presente . Sarebbe pleonastico aggiungere che si tratta di un patrimonio irripetibile, di eccezionale rilevanza, appartenente alla memoria culturale del luogo, e, in quanto tale e di per sé, «di tutti e per tutti».