Il 16 novembre si è tenuta in molte città italiane l’iniziativa di Airbnb 100 Case 100 Idee. Obiettivo, discutere di politiche pubbliche e sostenibilità del turismo per l’approvazione di norme a favore della piattaforma. La cronaca dell’evento fiorentino a cura di Sarah Gainsforth.
«Ciao Firenze!» saluta con forte accento americano Chris Lehane di Airbnb, in un video registrato proiettato sulla parete della sala gremita. I posti sono quasi tutti occupati, gli anziani davanti, i giovani appollaiati su tavoli a ridosso delle pareti. L’iniziativa di Airbnb “100 case 100 idee” si svolge in contemporanea in numerose città italiane dove gli host (quanti offrono case o stanze in affitto a turisti sulla piattaforma) sono stati organizzati e istruiti della piattaforma per discutere di politiche pubbliche per un turismo sostenibile. A Firenze l’iniziativa è ospitata dall’Istituto Europeo di Design, che ha sede in isolato nel cuore del centro storico, un tempo occupato dalla Cassa di Risparmio di Firenze, venduto al colosso immobiliare americano Colony Capital, indagato in Italia per un’evasione fiscale milionaria.
Dentro, alcuni membri dell’organizzazione, cartellini sul petto, sostano in piedi in vari punti della sala, si muovono tra le sedie, si fanno cenni, sorvegliano. La regia è ferrea: tutto si svolge come da copione, ci sono state le prove generali. L’evento è stato progettato per conto di Airbnb da Avventure Urbane, l’associazione specializzata in processi di partecipazione guidata da Iolanda Romano, oggi “Campaign Manager Italy and South East Europe” di Airbnb, che vanta nel proprio curriculum alcuni tra i progetti di mobilità più inutili, dannosi e osteggiati dalle popolazioni locali interessate.
Un fotografo si aggira nella sala, punta l’obiettivo, scatta fotografie a raffica. I presenti fissano il volto sorridente di Iolanda Romano, in collegamento da Milano, proiettato sulla parete. La “responsabile politiche pubbliche” di Airbnb enuncia in pochi minuti l’obiettivo dell’iniziativa: elaborare preposte sul tema «cosa può fare il governo per rendere l’ospitalità responsabile e sostenibile?». Nella guida alla discussione, che Airbnb ha inviato a tutti gli host registrati, si legge che l’incontro è un’occasione per «far sentire la voce dell’ospitalità in casa», per capire come questa, il turismo esperienziale e il loro rapporto con il territorio «possano contribuire a uno sviluppo che sia amico dell’ambiente, che produca impatto sociale e che migliori l’economia nella quale viviamo, limitando gli effetti che possono produrre disagi alle comunità intorno» – “intorno” a cosa non è dato sapere. Iolanda augura buon lavoro, il collegamento di interrompe, parte un timer. «Bisogna rovesciare la narrazione corrente» esordisce al microfono, finalmente dal vivo, Gianni Facchini di MyGuestFriend, l’associazione che gestisce l’evento locale.
La “narrazione corrente”, quella per cui Airbnb danneggia le città, viene curiosamente presentata come egemone nonostante Airbnb non abbia incontrato alcun ostacolo nel suo proliferare in Italia. Fino a ora.
Firenze, con circa 10mila annunci (sono quasi 50mila nell’intera regione), è la città con la più alta concentrazione di annunci nel centro storico. Qui, secondo uno studio dell’Università di Siena, il 18% delle case è su Airbnb. Ma è di pochi giorni fa l’annuncio del sindaco di Bologna Virginio Merola di uno stop ad Airbnb nel centro storico della città, dove studenti e famiglie non trovano più casa.
Contro questa narrazione Airbnb produce dati. Non quelli relativi agli annunci, che le amministrazioni potrebbero essere interessate ad avere, ma dati sull’impatto economico, impossibili da verificare, autoevidenti, senza altra fonte che Airbnb stessa: «l’impatto economico di Airbnb in Italia è stato di 5,4 miliardi. Solo il 30% di questo importo riguarda gli affitti, il resto sono risorse che restano sul territorio». Ma a chi, esattamente? Sappiamo che la tassa di soggiorno, rendicontata in maniera forfettaria da Airbnb per le città con cui ha stretto accordi, non è reinvestita in servizi pubblici locali e manutenzione, come sappiamo che “il territorio” sta cambiando rapidamente con la sostituzione di attività di vicinato con catene commerciali internazionali, negozi di food&beverage, depositi per valigie, concept-store e sedi di marchi di lusso e tante serrande abbassate.
Facchini affronta finalmente l’elefante nella stanza, il tema dell’overtourism, del troppo turismo, dei flussi turistici in aumento che stanno congestionando le città. Solo per liquidarlo subito dopo attraverso una semplice strategia: la declinazione del problema come una questione non di quantità ma di qualità del turismo, attraverso l’invenzione di subcategorie di turisti buoni e turisti cattivi. Infatti «il vero problema non è il turismo ma il turismo mordi e fuggi» – anche se a Firenze la permanenza media dei turisti è in media di 2,7 notti. Ancora: «il turismo buono è un modello di accoglienza che responsabilizzi tramite il contatto diretto».
Ma come, Airbnb non si fonda proprio sul contatto diretto, sullo scambio personale, sulla condivisione? Evidentemente non più, ne prendo nota. Ma il fatto è che posto così, il problema dell’overtourism è diventato un fenomeno riconducibile alla sfera dei comportamenti individuali. La soluzione: host e turisti vanno responsabilizzati. Segue un elenco di misure, per responsabilizzare tutti e in generale per ottenere «più sicurezza»: una banca dati regionale, la segnalazione degli ospiti ai portali della questura, la creazione di un codice identificativo nazionale. La radice del problema, la causa del troppo turismo, il modello economico fondato sull’industria del turismo che le città hanno adottato quale strumento di crescita economica (secondo il mantra “il turismo genera ricchezza”), non viene mai messo in discussione.
E la gentrificazione? Il nostro cita il sindaco Nardella: «Negli anni Ottanta e Novanta la classe dirigente ha deciso di svuotare il centro, senza un piano di riqualificazione». È colpa di chi è venuto prima, il processo si è ormai consumato, noi non siamo responsabili e non possiamo che prenderne atto, sono in sintesi le posizioni degli host.
Dunque la soluzione viene invocata sul piano normativo e securitario, con l’invito all’assessore e al governo a normare il fenomeno per una «maggiore trasparenza» – senza mai menzionare il fatto che Airbnb non pubblica i dati. Prende la parola proprio l’assessore all’urbanistica di Firenze, Cecilia Del Re, che porta i saluti del sindaco. Del Re assicura che l’amministrazione è “parte attiva” nel governare il turismo ed elenca alcuni strumenti adottati. Manca però il decreto attuativo nazionale, sollecitato al ministro Franceschini, che consenta di distinguere tra attività occasionale e imprenditoriale su Airbnb che, nelle parole dell’assessore, gode di un «potere allarmante». Già, perché grazie alla direttiva europea sull’e-commerce gli stati membri non possono normare Airbnb. Per questo Firenze, insieme a Bologna, ha aderito al tavolo delle città europee che chiede all’UE di “almeno” aggiornare il regolamento.
Del Re cita alcuni dati sulla trasformazione di Firenze in Disneyland per turisti: il 78% delle nuove aperture commerciali è nel settore del food, con una densità maggiore nel sito Unesco. C’è bisogno, secondo Del Re, di una revisione normativa a livello nazionale e l’attribuzione di maggiori poteri ai comuni: questo consentirebbe ai comuni di «contingentare gli appartamenti e il tempo di attività delle locazioni brevi per quartiere». Nella sala si leva un brusio di disapprovazione. Qualcuno mormora «il comune non può gestire le nostre proprietà!». Gli imprenditori di se stessi sono preoccupati. Ma ora tocca a loro “diventare protagonisti” dell’iniziativa, con l’avvio dei tavoli di lavoro.
Gli host si sparpagliano in piccoli gruppi in una decina di tavoli per elaborare le raccomandazioni sul governo del territorio da inviare ad Airbnb e la stesura di un “manifesto per il turismo sostenibile”. Il mio tavolo è coordinato da Michele, un “facilitatore volontario”, capelli e barba rossi, un cardigan blu, maniere gentili. Michele distribuisce dei post-it con il nome scritto a penna da mettere sul petto e introduce la sessione: avremo 50 minuti di tempo per discutere i punti elencati nella guida alla discussione fornita da Airbnb. Michele scrive le proposte di volta in volta elaborate dal gruppo in una chat sul telefono e preme invio.
La prima domanda nella guida di Airbnb è «Cosa possiamo fare per promuovere un turismo responsabile e sostenibile?». Ci sono alcuni esempi di sotto-temi da sviluppare che Michele ci legge ad alta voce: «Che cosa può fare la community Airbnb a partire dalla gestione delle case e delle esperienze, per migliorare la sostenibilità del proprio impatti?». Ancora: «Come possiamo contribuire agli obiettivi di sviluppo sostenibile di Agenda 2030 e con quali altre realtà (associazioni, ecc.) si potrebbe collaborare?». Michele confessa di non conoscere gli obiettivi di Agenzia 2030, ma poco male, la discussione si concentrerà tutta sul primo sotto-tema. Non prima però di una osservazione di una delle host presenti al tavolo, Maria. «Hanno fatto in modo che il turismo diventasse di massa, sono cambiati i giocatori, è diventato un business per chi gestisce anche fino a 500 appartamenti… di che cosa vogliamo parlare?»
Esattamente. Perché i singoli host sono chiamati a discutere di un fenomeno di massa facilitato anche da Airbnb? Perché la responsabilità di trovare soluzioni per un turismo sostenibile dovrebbe ricadere su di loro? Perché Airbnb scarica su di loro ogni responsabilità?
Gli host sono pedine, nella misura in cui siamo tutti pedine del capitalismo delle piattaforme digitali. Gli host Airbnb, grandi e piccoli, sono soggetti attivi della produzione del nuovo modello economico che è stato completamente interiorizzato. È chiaro quando parlano di «che cosa possiamo fare noi». È un “noi” riferito alla Community Airbnb in cui la dimensione della città reale sembra scomparire così da non vedere gli effetti che questo nuovo “noi” produce sugli “altri” con la trasformazione della destinazione d’uso delle case e, prima ancora, della mentalità comune. Sono lontani i tempi in cui si affermava che “La casa non è un lusso ma un bene indispensabile”, come recitava lo striscione portato in piazza per il primo sciopero generale per la casa in Italia, il 19 novembre 1969, partecipato da oltre 20 milioni di lavoratori. Cinquant’anni dopo, la messa a profitto della propria casa, non più luogo per abitare ma strumento per guadagnare, la trasformazione dei proprietari in piccoli speculatori, sono date per scontate, sono fatti presentati come naturali, di più, come diritti, quello alla mobilità e all’ospitalità – «un’ospitalità amica dei consumatori e degli abitanti» si legge nella guida.
Airbnb informa che «la settimana successiva all’evento tutti i partecipanti riceveranno un invito a inoltrare un messaggio alle istituzioni per le proposte più condivise e fattibili». Ma io non voglio vivere nel mondo dei diritti dei consumatori della Airbnb Community, penso. Mi torna in mente un passaggio di David Harvey, in Breve Storia del Neoliberismo: «appropriandosi delle idee di libertà individuale e volgendole contro le pratiche interventiste e regolatorie dello stato, gli interessi della classe capitalista potevano sperare di proteggere, e anche di restaurare, la loro posizione. Il neoliberismo era del tutto funzionale a questo compito ideologico, ma doveva trovare sostegno in una strategia pratica che ponesse l’accento sulla libertà di scelta del consumatore, non solo rispetto a prodotti specifici, bensì anche rispetto a stili di vita, modi d’espressione e un’ampia gamma di pratiche culturali. La neoliberalizzazione richiedeva, politicamente ed economicamente, la costruzione di una cultura populista neoliberista, basata sul mercato, fatta di consumismo differenziato e libertarismo individuale». Ecco fatto.
Sugli effetti che la Airbnb Community sta avendo sulle città del mondo reale tutti sono d’accordo sul fatto che «non è colpa di Airbnb»: semmai «Airbnb è la conseguenza, non la causa dello svuotamento del centro storico». Insomma «indietro non si torna». Che fare? Si fa un gran parlare di sostenibilità energetica delle case – di riscaldamento, di aria condizionata. Mauro, che ha portato con sé il volume Vivere di Turismo, parla di responsabilizzare il cliente, della raccolta differenziata, dell’uso dei depuratori per l’acqua.
È il momento di affrontare le questioni locali. Michele legge la domanda, relativa agli effetti del turismo a Firenze. Beatrice, una host bionda e solare, ha sempre una risposta per tutto. Per decongestionare e disperdere i flussi turistici in eccesso «bisogna investire in infrastrutture» per facilitare la mobilità dei turisti. Dunque si invocano investimenti pubblici in infrastrutture pubbliche per turisti, mentre molti degli abitanti delle città che sono costretti ad abitare in aree marginali soffrono l’insufficienza cronica di servizi di trasporto pubblico locale. Per loro nessuno invoca mai il diritto alla mobilità. Del resto le amministrazioni che usano il turismo come motore di crescita sono già a lavoro per questo – Bologna fornisce ottimi esempi con il People Mover, la monorotaia che collega la città all’aereoporto mutuata da Disneyland, e la linea di autobus pubblica, sempre vuota, che collega la città a Fico, il parco-giochi del food di Oscar Farinetti.
Il brainstorming su come decongestionare la città-merce, il nuovo mantra di chi parla di sostenibilità del turismo, prosegue con proposte quali un bonus per i turisti che prenotano fuori dal centro e la sponsorizzazione di attività commerciali periferiche. Ma, concordano tutti, riprendendo lo schema rodato nella prima sessione, il vero problema di questo tipo di turismo che invade le città è il “minimum-stay”, il tempo di permanenza dei turisti. Quelli che si fermano sono buoni, quelli che non si fermano neanche una notte sono cattivi. Senza ombra di dubbio, i turisti appartengono a queste due categorie, che a ben guardare sono categorie per capacità di spesa. Il nemico è presto individuato: i peggiori sono «quelli che arrivano in pullman», i turisti mordi e fuggi che girano la città e ripartono il giorno stesso. Questi turisti «bloccano il traffico, sporcano, non pagano la tassa di soggiorno – ma Michele obietta che in effetti la pagano –, mangiano questi panini» e, conclude Maria, «ne nasce tanto degrado».
«Allungare il pernottamento!» è la soluzione unanime. Come? Beatrice propone la creazione di guide per turisti che si fermino tre giorni per incentivarli a fare «una experience alternativa». In effetti, nota Beatrice, la sezione “viaggi” di Airbnb è sempre sold-out e sta avendo successo. Questa è una possibile chiave di sviluppo: che Airbnb diventi un vero e proprio tour operator per promuovere alcuni territori piuttosto di altri. Cosa che del resto già fa.
A questo punto intervengo. Vorrei riprendere la domanda di Maria, a cui non abbiamo risposto. Mi ero presentata a Michele come host romana, che in parte è vero perché anni fa durante un viaggio avevo affittato la mia casa su Airbnb. Il proprietario, informato dalla portiera, si arrabbiò, salvo poi ringraziarmi dell’idea quando decise di affittare su Airbnb altri suoi appartamenti, anziché affittarli a residenti e studenti.
«Cosa ne pensate della differenza fra host con un solo annuncio e host con molte case su Airbnb?», chiedo. Maria per esempio gestiva una pensione, fallita, ed è diventata host di Airbnb, il che è ironico perché è proprio il proliferare di Airbnb ad aver messo in ginocchio la fascia ricettiva medio-bassa. Chi non è riuscito ad aggiungere stelle ed entrare nella categoria del lusso è stato tagliato fuori. Maria ha le idee chiare sul tema dei multihosts: «dovrebbero essere soggetti a una tassazione diversa». Annuisco, mi sembra una proposta sensata, che nessun amministratore o politico mi pare abbia mai fatto finora. Ad aver proposto un regime fiscale progressiva sulla casa in generale è stata solo l’Unione Inquilini, nel dibattito su un possibile aumento dell’aliquota sui contratti a cedolare secca: l’idea, semplice, è che se sei un piccolo proprietario dovresti pagare meno dei grandi imprenditori che affittano tante case. Michele prende nota.
A questo proposito, nota Beatrice, le case gestite in maniera impersonale dalle agenzie «non lavorano bene». Secondo Beatrice molte di queste stanno tornando sul mercato degli affitti di lungo periodo. «Cosa possiamo fare per le case che tornano sul mercato degli affitti?». Cosa possiamo fare per le case che tornano sul mercato. «Dovremmo riuscire a intercettarle e darle in gestione a singoli host, a dei co-host che hanno voglia di collaborare, mettendo in contatto proprietari di case e host», propone Barbara. Nel magico mondo di Airbnb le case che tornano ai residenti sono un problema – tra l’altro neanche molto logico, poiché meno offerta significherebbe meno concorrenza e, volendo, prezzi più alti per gli host del mio tavolo di discussione. Ma meno soldi per Airbnb, che guadagna percentuali su ogni transazione intermediata. Di nuovo, quello che mi colpisce è il grado di interiorizzazione da parte di questi host della filosofia di Airbnb, di cui parlano alla seconda persona plurale: quindi oltre a risolvere a livello individuale attorno a un tavolo il problema della sostenibilità del turismo, ci siamo appena accollati il piano di sviluppo di una multinazionale americana privata, dal modello economico a quanto pare insostenibile, visto che siamo chiamati a parlarne.
Inutile dire che se il problema delle case che escono dal circuito degli affitti brevi è avvertito, da questi host, come un problema, fuori dalla Community di Airbnb la carenza di case in affitto e i prezzi in aumento è un problema per chi le abita. Diletta, una studentessa di Firenze, ne sa qualcosa. La sera prima, in un piccolo spazio occupato in pieno centro storico, l’occupazione di Via del Leone, mi racconta di aver traslocato da poco, lasciando una casa in centro. «Sono nata in quella casa, ma la figlia della vecchia proprietaria non ha voluto rinnovare il contratto, ha messo la casa su Airbnb. Da pochi mesi ho trovato un altro posto ma sono terrorizzata. Nella zona sta per aprire uno studentato di lusso, ho paura che il mio affitto aumenti. Per fortuna l’attuale proprietaria è anziana e non legge le notizie, io spero che non si accorga mai dell’arrivo del nuovo studentato».
Se alcuni proprietari lamentano i tempi biblici per l’esecuzione degli sfratti nel caso di inquilini morosi e dunque preferiscono affittare su Airbnb piuttosto che rischiare di perdere anni di affitto, secondo Laura Grandi, segretario regionale del SUNIA, la causa della morosità degli inquilini è nei prezzi degli affitti, in aumento a causa della gestione turistica. «La vera emergenza abitativa sono gli affitti troppo alti. Non è normale pagare 700 euro al mese per abitare in un buco. Affitti così alti non possono essere la normalità». Grandi denuncia situazioni abitative «socialmente e legalmente inammissibili». Per esempio il caso di una casa, scadente e degradata, condivisa da quattro diversi nuclei familiari con figli, un nucleo a stanza, per 300 euro ciascuno. «Come sindacato non possiamo tollerare questo scenario abitativo, dove i più deboli sono costretti ad accettare l’inaccettabile!», ha commentato Grandi in un post facebook. Se non ci fosse Airbnb a nascondere le reali condizioni di impoverimento di molti che, come Maria, hanno subito gli effetti della crisi, forse si inizierebbe a fare i conti con il modello di città e di economia estrattiva che di essa si nutre, a spese dei suoi abitanti.
Fuori, per strada, abitanti e studenti cantano in coro “La sicurezza si fa così, più case popolari, meno Airbnb”. Uno striscione appeso al muro recita “Boycott Airbnb, 100 case 100 sfratti”. Anche a Napoli è in corso una manifestazione che attraversa il centro della città che sta cambiando rapidamente volto.
Andando verso la stazione, mi perdo. Il navigatore mi consiglia un percorso inutilmente lungo, così chiedo indicazioni a una ragazza in pausa dal lavoro. Non faccio in tempo a formulare la domanda che lei, il grembiule indosso, mi fa cenno di seguirla e mi accompagna per un tratto di strada che percorre ogni giorno, perché non abita a Firenze. Ripenso a un aneddoto raccontatomi a Venezia, dove qualcuno ha inventato una app per l’assistenza dei turisti persi nei vicoli. Un’idea che, per fortuna, a oggi non ha preso piede. Forse ci sono ancora troppi abitanti a cui chiedere indicazioni.