Con un voto plebiscitario di 553 favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti lo scorso 8 ottobre la Camera ha approvato definitivamente la legge che, dalla prossima legislatura, ridurrà i deputati a 400 dai 630 attuali ed i senatori a 200 dagli attuali 315.
Si è parlato di una “riforma storica” che produrrà un risparmio di circa 80 milioni di euro all’anno per le casse statali, una cifra importante, che dovrà però fare i conti con i problemi legati alla minor rappresentatività di molti territori della penisola e che da molti è giudicata “più simbolica che sostanziale”, visto che da sola non risolverà i problemi dell’Italia.
Nessuna maggioranza italiana, infatti, ha ancora deciso di depotenziare le spese militari, a partire dai famigerati caccia F35, per risparmiare 70 milioni di euro al giorno, ma nella Manovra 2020 è comparsa una tassa sulle emissioni di carbonio, la cosiddetta “carbon tax”, che oggi rappresenta uno strumento sempre più diffuso nel mondo per contrastare l’avanzata dei cambiamenti climatici e promuovere un uso più efficiente e innovativo dell’energia.
Secondo il rapporto “State and trends of carbon pricing” elaborato dalla Banca mondiale, quest’anno i Paesi che hanno introdotto misure di “carbon tax” sono cresciuti dai 19 del 2010 ai 56 del 2019, con una diffusione sempre più marcata anche in Europa. In Italia la Manovra 2020 riporta l’eliminazione a partire dal 2021 del beneficio sul gasolio utilizzato per il trasporto di merci e passeggeri dei veicoli di categoria Euro3 ed Euro4 e mette in campo misure per la disincentivazione dell’uso di prodotti e mezzi inquinanti. Si tratta essenzialmente di misure che colpiscono i sussidi considerati ambientalmente dannosi e che prevedono anche il coraggioso aumento della tassazione per l’uso di derivati del petrolio usati per la produzione di energia elettrica.
In Italia le emissioni di gas serra non calano dal 2014. Per allinearci con la traiettoria dell’Accordo di Parigi per il clima dovremmo almeno dimezzare, entro il 2030, le emissioni del 1990 che erano pari a circa 520 Mton, quindi ridurle a 260 Mton.
Secondo le stime dell’ISPRA, con le misure attualmente vigenti prima di questa Manovra, arriveremmo a 380 Mton al 2030, ci mancano quindi misure per tagliare 120 Mton nei prossimi 10 anni. “Se c’è qualcuno in grado di dimostrare che sia possibile produrre uno sforzo del genere senza mettere in campo un impegno straordinario, ma solo con piccole misure di ordinaria amministrazione, si faccia avanti” ha recentemente suggerito Edo Ronchi presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile ed ex ministro dell’Ambiente. Per questo l’introduzione di una carbon tax sembra un primo passo importante e innovativo se “Una parte di questa tassa fosse impiegata per ridurre altre tasse, a partire da quelle sul lavoro e per compensazioni sociali per le famiglie a basso reddito (anche per evitare contraccolpi come la rivolta francese dei Gilet gialli). La parte rimanente, intorno alla metà, andrebbe investita in attività che riducano le emissioni, alimentino la green economy e l’occupazione” ha spiegato l’ex Ministro.
Al momento la “carbon tax” è una soluzione abbracciata da almeno dieci nazioni del Vecchio continente, come Svezia, Finlandia, Danimarca, Slovenia, Polonia, Norvegia, Francia, Spagna, Portogallo e ultima arrivata la Germania.
Se la Svezia rappresenta uno degli esempi più duraturi di “carbon tax” in Europa, l’ha introdotta negli anni ’90 e da allora il suo Pil è cresciuto del 58% mentre le emissioni di gas serra sono calate del 23%, tanto che il Paese nel 2017 ha potuto approvare una legge che impegna la nazione a divenire “carbon neutral” entro il 2045 (con un lustro d’anticipo sui target europei), in Germania il Klimaschutzprogramm 2030 ha presentato solo poche settimane fa l’introduzione di questa utile misura ecologica ed economica.
Si tratta di una soluzione che persino la nuova direttrice generale del Fondo monetario internazionale (Fmi), la bulgara Kristalina Georgieva, ha auspicato agli Annual Meetings del Fmi, che si sono tenuti lo scorso mese a Washington. Per la Georgieva, da sempre sensibile ai temi ambientali, “la politica fiscale deve giocare un ruolo centrale nella transizione energetica ed ecologia, per questo la carbon tax è uno degli strumenti più potenti ed efficaci per la riduzione delle emissioni”. In questo senso una delle priorità del nuovo corso del Fmi targato Georgieva è “assistere i Paesi che riducono le emissioni di carbonio e diventano più resistenti al clima”.
Con l’attuale prezzo medio del carbone a 2 dollari per tonnellata, la maggior parte delle persone e la maggior parte delle aziende hanno pochi incentivi finanziari per effettuare questa transizione, eppure la ricetta di un gruppo sempre più ampio di economisti, abituati a mettere in fila i numeri più che gli ideali, è favorevole a una tassa sulle emissioni di anidride carbonica che dissuada le aziende dallo scegliere fonti inquinanti e incentivi indirettamente le fonti sostenibili.
Secondo un nuovo studio pubblicato dalla statunitense National Academy of Sciences “sarebbe meglio se una tassa sulla CO2 iniziasse subito da livelli molto alti, sopra $100 la tonnellata o potenzialmente anche sopra $200, continuando ad aumentare per alcuni anni, per poi lentamente cominciare a scendere nei prossimi secoli, via via che si riuscirà a mitigare la crisi climatica”.
Una soluzione di questo tipo non darebbe alternative e spingerebbe i paesi e le imprese ad eliminare la CO2 molto più rapidamente, visto che secondo gli autori dello studio, questa “cura da cavallo” è necessaria per recuperare il tempo perduto: “Gli Stati Uniti e la maggior parte dei governi, infatti, aspettando ancora a mettere una tassa significativa sul carbonio rendono la transizione energetica verso un modello più sostenibile sempre meno efficace”. “Il risultato più sorprendente della ricerca è la rapidità con cui il costo del ritardo aumenta nel tempo”, ha spiegato in una dichiarazione allegata allo studio uno degli autori, Robert Litterman, esperto di gestione del rischio della banca d’affari Goldman Sachs, attenta, di norma, più al profitto che all’inquinamento.
Il suo team ha stimato che se il mondo rimandasse di un solo altro anno l’imposizione di una tassa sulla CO2, i danni causati dai cambiamenti climatici aumenterebbero di 1 trilione di Dollari. Attendere altri 10 anni causerebbe 100 trilioni di dollari di costi aggiuntivi causati dalla crisi climatica e dalle sue conseguenze. Secondo questi economisti, insomma, si è già perso fin troppo tempo e i costi della malattia supereranno di molto i costi della cura, per quanto economicamente dolorosa. Quindi, per quanto migliorabile, non possiamo non salutare con soddisfazione la “carbon tax” annunciata dal governo. Vediamo adesso cosa ne pensano le Camere.